mercoledì 25 marzo 2009

Una pagina che non è chiusa

A mio avviso uno dei più lucidi articoli sulle ragioni del "no" alla sospensione dell'alimentazione nel "caso Englaro", scritto da Ferrando Mantovani, ordinario di Diritto Penale all'Università di Firenze, e penna tagliente, uscito su “Avvenire” il 5 febbraio 2009, il giorno prima dell’interruzione ad Eluana del cibo e dell’acqua, quattro giorni prima della sua morte.


“Un’esecuzione capitale con tanto di regolamento”

Il caso di Eluana Englaro solleva profonde inquietudini sotto il profilo giuridico, per due vizi di fondo delle pronunce giudiziarie in materia. Queste, infatti:

1) costituiscono atti non di giurisdizione ma di “sovranità”, poiché non solo si è costruito in esse un quanto mai controverso diritto all’uccisione, ma se ne sono stabiliti i limiti e si sono fissate, addirittura, le modalità di esecuzione della sentenza di morte (in confacenti “hospice”, con trattamenti riduttivi delle atrocità visive della morte per fame e sete, e la somministrazione di sedativi): cose estranee alla giurisdizione e al nostro attuale diritto, che prevede, invece, i delitti di omicidio del consenziente;

2) sono inficiate da un sistema di slealtà giuridiche. Una di queste è che la sentenza della corte di cassazione del 13 dicembre 2008 ha deciso per la liceità dell’uccisione di Eluana facendo finta di non decidere, attraverso il sofisma processuale dell’inammissibilità del ricorso del procuratore generale della repubblica di Milano, perché privo di “interesse pubblico”, riguardando il caso in esame il diritto personalissimo del rifiuto dei trattamenti medici. Con ciò ha degradato il caso a un fatto meramente privato, individuale, dimenticando: a) che le problematiche del testamento biologico e dello stato vegetativo presentano una dimensione epocale e pressoché planetaria; stanno provocando un lacerante impatto nella pubblica opinione; costituiscono oggetto di incertezze scientifiche; interessano migliaia di Eluane, presenti e future; hanno provocato interventi delle amministrazioni regionali e del ministro del welfare; b) che ciò che concerne il primario diritto alla vita sottostà alla garanzia della riserva di legge, volta ad assicurare, fra l’altro, la certezza e l’eguaglianza giuridica.

Inoltre, le pronunce della corte d’appello di Milano del 9 luglio 2008 e, ancor prima, della cassazione del 16 ottobre 2007 hanno postulato come certi due dati scientificamente smentiti o problematici (vedi, da ultimo, il documento del gruppo di ricerca del ministero del welfare):

1) la irreversibilità dello stato vegetativo persistente, che invece è un giudizio soltanto prognostico-probabilistico, essendo stata provata dalla scienza non la totale assenza di possibili momenti di coscienza di sé e del mondo esterno, bensì, attraverso la risonanza magnetica funzionale, un’attività cerebrale cosciente, intrappolata in un corpo non comunicante con l’esterno per il blocco muscolare;

2) la totale assenza di sensibilità, di sofferenza, in caso di morte per fame e per sete: cosa non solo scientificamente non provata, ma smentita implicitamente dagli stessi giudici milanesi, avendo essi prescritto l’accompagnamento dell’interruzione di alimentazione e idratazione con la somministrazione di sedativi antidolorifici.

E ancora. La corte di cassazione, nella pronuncia del 2007, ritiene che il rifiuto del paziente al trattamento possa desumersi oltre che da sue precedenti dichiarazioni, anche dalla sua personalità, dal suo stile di vita e da suoi convincimenti circa l’idea stessa di dignità della persona. Sulla base di tale generico e nebuloso criterio, aperto a tutti gli usi e arbìtri giudiziari, la corte d’appello di Milano ha potuto costruire un artificioso rifiuto di Eluana fondato sul nulla, cioè su asseriti vaghi discorsi e brani di conversazione, in un contesto storico, psicologico, esistenziale completamente diverso.

L’asserito rifiuto di Eluana manca, comunque, dei requisiti di validità pur minimi, richiesti anche dal comitato nazionale di bioetica e dai vari progetti di legge. E cioè:

1) dell’attendibilità, per questi quattro motivi: a) poiché manca la data certa del rifiuto, per accertare, fra l’altro, il requisito primario della maggiore età di Eluana al momento del rifiuto stesso; b) perché l’asserito rifiuto manca di quei requisiti di forma scritta, o addirittura notarile, richiesti per accertarne la veridicità; c) perché manca il requisito di specificità circa i tipi di trattamento rifiutati, essendo pacifico che l’asserito rifiuto di Eluana non poteva riguardare lo stato vegetativo, non ancora ben noto vent’anni fa; d) perché è stato violato il principio liberale-laico dell’autodeterminazione informata, poiché sia il consenso sia il rifiuto sono validi in quanto consapevoli, e sono consapevoli in quanto informati. E di certo Eluana non era stata informata e, comunque, non era consapevole, in quei lontani tempi, che l’interruzione di cibo e acqua avrebbe provocato un’orribile morte per fame e sete con un’agonia di vari giorni;

2) dell’attualità: perché si richiede che il rifiuto sia quanto meno espresso non in tempi lontani e in tutt’altro contesto, esistendo un’incolmabile differenza tra: a) una volontà espressa in un lontano momento di benessere e, comunque, quando la non incombenza dello stato patologico consentiva solamente una valutazione astratta e distaccata di tale situazione; e b) la persistenza di tale volontà nella situazione reale dello stato patologico, o quando sussiste una notevole distanza, cronologica e psicologica, tra i momenti dell’esternazione e della attuazione di tale volontà. L’asserito vago rifiuto di Eluana espresso risalirebbe a circa vent’anni fa: nel diverso contesto esistenziale di una giovanissima età e nella pienezza della vita.

In più c’è stata una perversione delle funzioni del rappresentante legale, al quale dall’ordinamento giuridico è conferito il solo potere-dovere di agire a tutela della vita del rappresentato e non per la sua soppressione. Si contrabbanda sotto l’enfatizzata difesa del sacrosanto diritto dell’autodeterminazione una palese violazione di tale diritto, poiché si sono fittiziamente attribuiti a Eluana un rifiuto di cibo e acqua e una consapevole volontà di morire per fame e sete, non fondati su alcuna valida prova.

Occorre infine chiedersi se una tale interruzione del cibo e dell’acqua non costituisca (come è stato prospettato da presidenti emeriti della corte costituzionale) omicidio doloso, per almeno cinque motivi:

1) perché compiuta mentre Eluana è persona viva, in quanto non è intervenuta la morte encefalica e il cuore batte e il respiro prosegue spontaneamente, ed ella viene soltanto aiutata a nutrirsi e a bere;

2) perché detta interruzione costituisce l’indubbia causa della sua morte;

3) perché esiste negli autori dell’atto la consapevolezza e la volontà di arrecare la morte e, quindi, il dolo di omicidio;

4) perché non è agevole configurare la scriminante dell’esercizio di un diritto appoggiandosi sull’autorizzazione dei giudici milanesi, poiché si tratta di autorizzazione “contra legem” per la carenza dei requisiti di legittimità dell’irreversibilità dello stato vegetativo e del rifiuto e, comunque, non vincolante per il giudice penale; non c’è nemmeno la scusante della buona fede circa la liceità dell’interruzione di cibo e acqua poiché, bastando per la sussistenza del dolo di omicidio anche soltanto il dubbio sulla liceità o meno dell’interruzione, quanto meno un siffatto dubbio è da ritenersi incontestabilmente presente negli autori dell’atto, stante l’acceso e perdurante dibattito scientifico e giuridico in materia, le autorevoli critiche alle pronunce dei giudici in questione, i rifiuti dell’interruzione da parte di molte regioni e strutture sanitarie, gli interventi contrari ministeriali e di tante voci di diversa provenienza;

5) perché, in breve, nel dubbio vale il principio di precauzione: “in dubio pro vita”.

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