giovedì 22 dicembre 2011

La crisi mondiale, il debito dell’Europa e quello degli Usa

da


di Maurizio d'Orlando

L’Europa non sta bene. Anche i Paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina) soffrono. Ma chi sta peggio sono gli Stati Uniti, dove il costo dei salvataggi bancari è di 30mila miliardi. La crisi economica attuale è il fallimento del modello culturale keynesiano e del falso mito della globalizzazione. È urgente riportare nell’economia i concetti di “responsabilità individuale e collettiva” e di “giustizia retributiva”.

Milano (AsiaNews) - Ormai da mesi l’attenzione dei mercati finanziari e dell’informazione economica è focalizzata sull’Europa più che su altre parte del mondo. È stata in primo luogo la situazione in Grecia, poi negli altri Paesi minori ai margini del continente, poi l’Italia ed in seguito la Francia, il cui merito del debito pubblico è a rischio declassamento da parte delle agenzie di valutazione come Moody’s e Standard and Poor's. Quest’ultima poi la settimana scorsa ha avvertito che il declassamento potrebbe toccare in massa 15 Paesi dell’area euro, una mossa davvero senza precedenti, che potrebbe portare ad una situazione d’insolvenza per molte banche europee. A rischio, in prospettiva, c’è anche la Germania e la stessa Banca Centrale Europea, la BCE. Non meraviglia, perciò, che l’euro si sia indebolito rispetto ad altre valute ed in particolare rispetto al dollaro.

L'Europa

C’è forse una guerra di Moody’s e Standard and Poor's contro l’Europa e le banche europee? Non ci è possibile escluderlo, anche se la fragilità costituzionale e la complessità della costruzione dell’euro è evidente. Altrettanto chiaro è che le risorse di cui si discute in Europa sono davvero scarse rispetto alle dimensioni del problema: il fondo “salva stati”– che sarà gestito dalla Bce – sarà di appena 500 miliardi di euro: una goccia rispetto alle dimensioni del debito pubblico dei vari Paesi europei, senza contare quello delle imprese, delle famiglie e quello delle banche e società finanziarie.

Anche dal punto di vista istituzionale le perplessità non sono poche. A rischio in questo campo è l’idea stessa di identità e legittimità costituzionale, la libertà dei suoi popoli, su cui si è fondata per secoli l’Europa. Due Paesi sono stati commissariati, privati del diritto di esprimersi mediante referendum o le opportune elezioni. Il presidente del Consiglio d’Europa, van Rumpuy, un funzionario non eletto, così aveva chiesto e così è stato fatto ad esempio nel suo incontro l’11 novembre scorso, con il presidente della Repubblica italiana Napolitano, così è stato fatto. Al vertice dei governi di Grecia ed Italia, sono stati insediate due persone, Monti e Papademos, che avevano ricoperto importanti incarichi con un passato in Goldman Sachs, una delle più grandi d’affari del mondo.

L’agenda dei loro Parlamenti è stata dettata nei minimi dettagli dalla Bce, un consorzio di banche centrali espressione del mondo delle banche private. Non termina tutto qui, però: l’Europa si avvia a modificare i trattati costitutivi della Ue. Mediante l’unione fiscale verranno introdotte pesanti penali automatiche determinate per via amministrativa da dei funzionari non eletti. Per tentare di salvare l’euro vanno di fatto nel dimenticatoio sia il principio della sovranità popolare che quello della libertà ed autodeterminazione dei popoli, oltre che le diverse identità storiche e culturali. Nonostante tutto ciò, è improbabile che si riuscirà a salvare dal disfacimento la moneta unica europea.

La Gran Bretagna

Altrove la situazione non è però migliore. Al di fuori dell’area dell’euro, sembrerebbe forse navigare in acque più tranquille la Gran Bretagna, ma è solo perché i riflettori sono puntati altrove. Il peso della finanza sull’economia del paese, il peso dell’indebitamento totale (pubblico, delle famiglie, imprese e finanza, finanza) è ben superiore a quello della media della zona euro, veleggia verso un po’ meno del 500% del Pil, appena al di sotto di quello giapponese. Lo ha fatto notare, forse poco graziosamente, Christian Noyer, governatore della Banca di Francia e membro del consiglio della Bce [1]. Quanto sia probabile che il governo Cameron vada oltre il mese di aprile non sappiamo dire. Delle difficoltà del Giappone AsiaNews ha già detto ieri [2].

La Cina e i Paesi del Bric

Della Cina AsiaNews ha riferito spesso (anche ieri [3]). Il segno più evidente delle sue difficoltà è dato dal crollo della bolla immobiliare e delle tante manifestazioni di protesta che si susseguono nel Paese. Il quadro, però, più chiaro del precipizio sul cui orlo si trova l’economia cinese è stato dal prof. Larry Lang [4] : se si considera il debito delle provincie e delle imprese statali - ha affermato - la Cina “è sull’orlo della bancarotta”.

Anche gli altri paesi del gruppo Bric (Brasile, Russia, India, Cina), si trovano in una situazione critica. L’India ha un deficit commerciale di circa 10 miliardi di dollari [5] Usa al mese, pari al 7 – 8 % del Pil su base annua ed ora stanno venendo a mancare i flussi finanziari che lo contro-bilanciavano: le rimesse degli emigrati, a causa delle crisi politiche in Medio Oriente, l’esportazione di servizi ai Paesi occidentali, a causa della crisi, ed ora il deflusso dei capitali speculativi. Una crisi valutaria prosciugherebbe le riserve in poco tempo.

Il Brasile ha anch’esso un deficit commerciale ed in più un tasso di cambio ampiamente sopravvalutato a causa dell’afflusso di capitali speculativi che è probabile cambino presto direzione. Inoltre il Brasile comincia a risentire del rallentamento della domanda cinese di minerali e derrate agricole. Una crisi valutaria rischia di far scoppiare la bolla della crescita trainata dalle esportazioni e di spingere il gigante sudamericano in una profonda recessione della sua economia.

La Russia ha un debito totale basso (d’altra parte è un paese che nel secolo scorso ha avuto ben tre insolvenze sul debito sovrano, un record finora imbattuto in epoca recente), ma ha una struttura industriale in declino. Si salva solo grazie all’esportazione di energia e questa per ora sembra tenere.

L’abisso degli Stati Uniti

Da questo quadro delle maggiori economie manca un elemento fondamentale e sembra per la verità sia sfuggito al radar dell’informazione economica internazionale: è scomparso l’elefante, gli Stati Uniti.

Il confronto tra Europa e Usa si riassume in queste due cifre, diverse ma entrambe riferibili a manovre di salvataggio. Mentre oggi si cerca con fatica di approvare il fondo “salva stati” – per 500 miliardi di euro – l’intervento finanziario negli Usa, deciso nei pochi mesi a cavallo tra l’autunno 2008 e l’inverno 2009, è stato pari 30mila miliardi di dollari , grosso modo due volte il Pil, il valore di tutti i beni e servizi prodotti in un anno negli States. Ad esso vanno ad aggiungersi la QE1 della Fed, lo “Stimolo”, il pacchetto di incentivi e di spese per lo “sviluppo” dell’economia approvato da Obama appena insediatosi alla Casa Bianca, la QE2 e l’operazione “Twist” sempre della Fed. Nonostante tutto ciò, il tasso di disoccupazione ufficiale è attorno al 9 % (era la 5 % nel 2008 prima della crisi), mentre quello autentico, calcolato in base ai più reali parametri ufficiali in uso fino al 1994, è pari ad oltre il 22 % [6]; l’inflazione è al 4 % (quella reale, con le metodologie più veritiere del 1990) è al 7 % mentre con i parametri del 1980 è circa il 12 % [7] ); ed infine la crescita del Pil ufficialmente è inferiore al 2 % – dunque, la ripresa dalla recessione ufficialmente non c’è ancora – ma in realtà il valore è negativo, pari a un - 3 % [8]. È un fallimento di proporzioni inaudite, e lo è in primo luogo per il suo costo, le manovre di cui è detto. Non sono solo cifre, sono una dato concreto visibile nelle città americane, riconoscibile nel numero molto basso di nuove costruzioni che, dal picco precedente la crisi, non si è mai ripreso [9], ed evidenziato dalla debolezza dei prezzi sul mercato immobiliare.

Fallito un modello culturale

Soprattutto è un fallimento che non è imputabile solo ai politici, alla finanza o alle banche centrali, ma ad un modello culturale. È, perciò, un fallimento che il mondo tutto, anche la gente comune, non vuole riconoscere nelle sue cause, perché è stato un sogno troppo bello e suadente. Per questa ragione è stato un modello culturale, quello della modernità contemporanea, che ha goduto di un grande consenso. È in primo luogo il fallimento del keynesianesimo, il modello economico adottato dalla Fed negli ultimi 50 anni, ed a seguire dalle banche centrali e dai governi di tutto il mondo a partire dal 1960, da quando cioè è stato messo in soffitta il principio del pareggio di bilancio. È un fallimento in tutte le sue varianti sia di sinistra fabiana (dove sono le sue origini), che di centro, il modello “renano” e l’economia sociale di mercato, che di destra.

Keynesiana è stata infatti anche la “supply side” reaganiana (che pure ha corretto gli eccessi ereditati dell’emergenza rooseveltiana – l’aliquota massima delle imposte prima di Reagan era pari al 75% del reddito) perché non ha certo mirato alla compatibilità di lungo termine, il debito sostenibile: il tasso d’incremento della spesa pubblica è stato inferiore ad epoche precedenti, ma pur sempre del 3 % annuo.

Keynesiana, a dispetto delle apparenze e delle etichette, è stata anche la lunga stagione di espansione monetaria di Alan Greenspan, il governatore della Fed prima di Bernanke. Alla luce dei fatti, la crescita del debito a lui imputabile, non è che una che delle varianti del keynesianesimo. In questo senso sia il monetarismo – pochi lo ricordano, ma anche Milton Friedman era d’accordo con Keynes – che le “aspettative razionali” della “scuola di Chicago” sono keynesiani.

Keynesiano è Bernanke, come Krugman e Stiglitz, i due consiglieri economici di Obama (come, per altro, è anche il nuovo primo ministro italiano, Mario Monti, allievo di James Tobin, quello della Tobin tax).

Il frutto avvelenato della globalizzazione

Soprattutto, la crisi attuale è il frutto avvelenato della globalizzazione, l’utopia liberoscambista fatta di furbizie mercantiliste cinesi e mercatismo finanziario americano. È, cioè, conseguenza del furto di sovranità imposto al mondo a partire dal 1994, con la costituzione del Wto, l’Organizzazione del Commercio Mondiale. Erano passati 50 anni esatti dagli accordi di Bretton Woods del 1944, da quando era stato dato al dollaro ed alla Fed il ruolo che era stato in epoche precedenti dell’oro. Si formava così una combinazione infernale. Da una parte, la moneta cartacea priva – a partire dal 1971 / 1973 – di ogni contenuto e riferimento reale e, dall’altra parte, la produzione di beni privi di individualità territoriali e culturali.

La soluzione sarebbe il ripristino sia del concetto di responsabilità individuale e collettiva che del principio di giustizia retributiva, il “suum cuique tribuere” [10] , cui i cristiani aggiungono la “caritas” non intesa semplicemente come carità ma come spiegato da San Paolo [11].

Il mondo ama però troppo i suoi errori economici e le sue false teorie, anche quando si dimostrano fallimentari. È così che ci avviamo verso un collasso senza precedenti. Non si parli, però, della profezia Maya: essa non c’entra. Sarà solo una questione di responsabilità umane.


1 - Vedi: Irish – Allain, 14/12/2011, Reuters, ECB's Noyer says French downgrade "not justified", http://www.reuters.com/article/2011/12/15/us-noyer-ratings-idUSTRE7BE05I20111215
2- Vedi: AsiaNews, 15/12/2011, Crisi in Europa, il Giappone perde fiducia nei mercati http://www.asianews.it/notizie-it/Crisi-in-Europa,-il-Giappone-perde-fiducia-nei-mercati-23449.html
3- Vedi: B. Cervellera, 15/12/2011, AsiaNews, Il Natale dell’emergenza, http://www.asianews.it/notizie-it/Il-Natale-dell’emergenza-23445.html
4 - Vedi: 30/11/2011, AsiaNews, Docente cinese: “La nostra economia è sull’orlo del baratro. Pechino sta barando” http://www.asianews.it/notizie-it/Docente-cinese:-%E2%80%9CLa-nostra-economia-%C3%A8-sull%E2%80%99orlo-del-baratro.-Pechino-sta-barando%E2%80%9D-23316.html
5 - Vedi: Nicola Matthews, James Felkerson, $29,000,000,000,000: A Detailed Look at the Fed’s Bail-out by Funding Facility and Recipient, University of Missouri-Kansas City,
6 - Vedi: http://www.shadowstats.com/alternate_data/unemployment-charts
7 - Vedi: http://www.shadowstats.com/alternate_data/inflation-charts
8 - Vedi: http://www.shadowstats.com/alternate_data/gross-domestic-product-charts
9 - Vedi: http://www.shadowstats.com/article/no-401-underlying-economic-reality-october-housing-starts
10 - Dare a ciascuno il suo, è derivato da Ulpiano nel Digesta, la raccolta giurisprudenziale voluta dall’imperatore Giustiniano: Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere alterum non laedere, suum cuique tribuere. I precetti della giustizia sono questi: vivere onestamente, non danneggiare altri, dare a ciascuno il suo.
11 - 1 Corinzi, 13.

lunedì 7 giugno 2010

Tizzi e fiamme!

"Io sono un dichiarato, un aperto, un irriducibile nemico della civiltà moderna. Questa sozza baldracca turpiloquente, vestita d'oro e ripiena di vermi, dov'ha toccato ha appestato. Essa ha innalzato i meccanici al di sopra dei poeti, i banchieri al di sopra de'santi, il diavolo al di sopra di Dio".

Domenico Giuliotti, in "Tizzi e fiamme".

Aforismi: democrazia

Democrazia: non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto.
(Pascal)

La democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato.
(Winston Churchill)

La démocratie, qui semble être la règle du monde moderne, et qui n'en est que la punition.
(Jules Barbey d'Aurevilly)

venerdì 14 maggio 2010

Venti caldi da est: Missili hi-tech made in Cina minacciano le portaerei americane

da ilsole24ore del 13 maggio 2010
di Gianandrea Gaiani

Il confronto strategico tra Stati Uniti e Cina si combatte anche sul fronte tecnologico. E lo sviluppo di una nuova arma da parte di Pechino rischia, potenzialmente, di ridurre o addirittura cancellare la leadership delle portaerei americane. Leadership che si è imposta dalle fasi finali della Seconda guerra mondiale come sistema d'arma chiave per il dominio globale. §

Allarme al Pentagono. A ufficializzare l'esistenza della nuova minaccia "made in China" è stato il 23 marzo scorso l'ammiraglio Robert Willard, comandante della Flotta del Pacifico che al Congresso ha espresso preoccupazioni per il fatto che la Cina stia «sviluppando e sperimentando un missile balistico autoguidato di medio raggio a testa convenzionale ASBM (Anti Ship Ballistic Missile), destinato specificatamente a colpire le portaerei americane».

Raggio d'azione di 2mila chilometri. Si tratterebbe della versione D del missile balistico Dong Feng - 21 dotato di un raggio d'azione di circa 2 mila chilometri, sufficiente a coprire il Mar della Cina Meridionale e l'area marittima che potrebbe teoricamente divenire teatro di un confronto militare tra Washington e Pechino, specie in caso di conflitto per il controllo di Taiwan.

La flotta Usa nell'Asia-Pacifico. Le portaerei statunitensi hanno finora rappresentato il deterrente strategico più importante contro le minacce cinesi a Taipei e l'allargamento dell'area marittima controllata dalla Cina che negli ultimi ha trasformato la sua forza navale da costiera in oceanica. Sempre più spesso gruppi navali cinesi si spingono a ridosso delle coste giapponesi e fino all'Oceano Indiano, utilizzando le basi concesse dalla Birmania, mentre la nuova base di sottomarini realizzata nell'isola di Hainan (monitorata a distanza da navi spia americane) ha scatenato una corsa al riarmo navale in tutti i Paesi del sud-est asiatico.

Pechino pensa alle portaerei. La Cina prevede in futuro di dotarsi di portaerei e sta studiando da anni una nave di questo tipo acquistata in Russia (la Varyag). Ma ancora per molti anni Pechino non sarà in grado di contrastare sul mare la supremazia statunitense incentrata su 11 portaerei da quasi 100 mila tonnellate, cinque delle quali schierate nel Pacifico. Per questo lo sviluppo di missili balistici anti-nave, dotati di testate convenzionali ad alto esplosivo al posto di quelle nucleari, rischia di compromettere gli attuali equilibri e, in prospettiva, di ridimensionare il peso delle portaerei.

Alta tecnologia cinese. Secondo Andrea Tani, che ha curato un report su questo tema per il web-magazine Analisi Difesa i cinesi avrebbero installato sui missili Dong Feng D un sistema di autoguida terminale necessaria per colpire bersagli in movimento come le portaerei la cui localizzazione verrebbe garantita da radar costieri a lunga portata già presenti sulle coste cinesi e dai satelliti da osservazione. «Oggi ce ne sono 38 e diventeranno 65 nel 2014, 11 dei quali dedicati al ruolo navale. Il 5 marzo sono stati lanciati dal poligono di Jiuquan tre satelliti Yaogan IX, collegati direttamente al programma ASBM, che sembrano una fotocopia degli statunitensi White Cloud NOSS (e forse lo sono veramente). Orbitano in formazione e sono dotati di radar ad apertura sintetica e sensori infrarosso per scoprire le navi, nonché apparati elettronici per intercettare ed analizzare le loro emissioni affinando i dati di localizzazione» scrive Tani.

Missili velocissimi. L'elevata velocità (fino a 8 volte quella del suono) renderebbe difficile l'intercettazione di queste armi da parte dei sistemi antiaerei e antimissile delle portaerei e della loro scorta e il lancio di un gran numero di ordigni potrebbe saturare i sistemi di difesa. In un contesto reale una portaerei colpita da uno o più missili balistici potrebbe anche non affondare ma certo perderebbe ogni capacità di combattere. Arduo per ora valutare la reale operatività e capacità degli ASBM ma la notizia del loro sviluppo è bastata a enfatizzare ulteriormente la sfida strategica portata da Pechino e la percezione delle crescenti difficoltà di Washington a mantenere la supremazia militare globale. Per non parlare del rischio che questa tecnologia si diffonda presso altri stati dotati di missili balistici come Iran e Corea del Nord.

L'oro della Patria, quelle riserve contese (TPD nel 7 agosto 2007)

ilsole24ore del 7 agosto 2007
di Rossella Bocciarelli


Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ha chiarito il suo pensiero in un'intervista alla Stampa: le riserve, auree e non, sono un patrimonio nazionale; l'uso delle eccedenze a calo del debito è già stato deciso in altri Paesi; dunque, entro i limiti del rispetto dell'autonomia della Banca centrale, «Governo e Parlamento hanno pieno titolo a occuparsi di queste tematiche».
In pratica, dopo la risoluzione di maggioranza alla Camera sul Dpef, Padoa-Schioppa ha mandato un messaggio al Governatore della Banca d'Italia: questo tema, pur con le dovute attenzioni istituzionali, non dev'essere un tabù; anche perché, alla fin fine, l'oro è degli italiani. E se vogliono devolverlo alla Patria, debbono poterlo fare. O, almeno, debbono poterne parlare.
Sarà un caso, però, ma è bastato evocarla, quell'immagine dell'oro a sostegno delle pubbliche finanze, che fa venire in mente le fedi nuziali pretese dall'autarchia di fronte alle sanzioni, per far sobbalzare il differenziale Bund-Btp. Già, perchè a un Paese come il nostro, che con il suo 106,5 di debito pubblico in rapporto al Pil (in crescita per il secondo anno consecutivo) gode ancora del poco invidiabile primato di Stato più indebitato del mondo, le sanzioni le applica il mercato.
E così, dalla fine di luglio, il divario fra i titoli di Stato decennali italiani e gli omologhi tedeschi è tornato ad allargarsi verso i 30-35 punti base, nonostante la comune appartenenza dell'Italia e della Germania all'Europa monetaria. Il tutto, nel bel mezzo di un'estate nella quale non è poi che scarseggino i motivi d'inquietudine per la scena finanziaria internazionale. È questo l'elemento che sta generando qualche tensione tra via XX Settembre e via Nazionale. Non gli aspetti formali dei rapporti fra il Principe e il suo Tesoriere, garantiti da un Trattato europeo di rilevanza costituzionale, che Padoa-Schioppa, con il suo lungo curriculum di ex banchiere centrale, conosce praticamente a memoria.
In base a questi aspetti formali, in Italia il diritto di proprietà sulle riserve è della Banca d'Italia, non dello Stato. E viene utilizzato come presidio della stabilità finanziaria in senso ampio (Bankitalia è chiamata anche a fare il prestatore di ultima istanza nei confronti degli intermediari creditizi). Proprio perchè la proprietà della riserve doveva far capo alla banca centrale nel 1998 via Nazionale dovette acquistare le riserve dall'Ufficio italiano cambi, per poter ottemperare ai requisiti di Maastricht. Da quella cessione, poi, l'Uic ottenne degli utili che successivamente furono retrocessi al Tesoro, secondo una strategia concordata.
E qui veniamo a un punto importante. Senza il consenso della Banca d'Italia e della Banca centrale europea, un provvedimento di legge che si limitasse a imporre a Bankitalia la cessione dell'oro violerebbe l'articolo 108 del Trattato, quello in base al quale, per l'appunto, i governi non possono dare "ordini" alle banche centrali. Non è un caso, quindi, che nel 2003 alla richiesta del Governo finlandese di utilizzo delle riserve, la Bce abbia opposto un rifiuto e che la banca centrale di Helsinki, successivamente, quelle riserve non le abbia vendute; così come dopo un progetto del Governo francese si è successivamente arrivati a un netto ridimensionamento del disegno iniziale, limitando la finalizzazione della vendita delle riserve a obiettivi molto specifici e definiti.
C'è infine un altro muro tecnico-giuridico non da poco nel quale si rischierebbe di incappare. Vendere riserve per poi retrocedere gli utili andrebbe ad aumentare a dismisura il credito d'imposta della Banca d'Italia, che è già molto elevato: via Nazionale è infatti ancora in credito con l'Erario per 7 miliardi e 800 milioni, come coda del maxi-swap da 22 miliardi in titoli di Stato del 2002 . Il rischio è che scatti in tal modo un'altra violazione del Trattato europeo: quella dell'articolo 101, che vieta i finanziamenti allo Stato.

Padoa-Schioppa: l'euro è incompatibile con la piena sovranità nazionale (Ft)

da ilsole24ore del 14 maggio 2010
di Elysa Fazzino

Nella battaglia per l'euro, Tommaso Padoa-Schioppa spezza un'altra lancia a favore di una maggiore integrazione europea in un articolo pubblicato sul Financial Times, "L'euro rimane dalla parte giusta della storia". Secondo l'economista, considerato uno dei "padri fondatori" della moneta unica, è sbagliato credere che l'euro e la piena sovranità nazionale siano compatibili: questo credo impedisce all'Europa monetaria di andare fino in fondo con la "necessaria riforma", che comporta trasferimenti di sovranità.

Cittadella sotto assedio - Padoa-Schioppa, che è stato ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Prodi II e membro del board della Bce, usa la metafora della cittadella assediata per spiegare gli attacchi fatti all'euro negli ultimi mesi. L' "esercito" che ha assediato la "cittadella" della valuta europea, argomenta, è convinto che l'area dell'euro non possa mai diventare un'unione politica perché gli europei non lo desiderano e gli stati-nazione non rinunceranno mai al loro potere. Secondo gli aggressori, la cittadella è quindi destinata a capitolare.

I difensori della cittadella sono invece convinti che l'euro possa continuare a funzionare così com'è. "Per anni i capi di governo europei e i banchieri centrali hanno predicato che una moneta senza stato è un'invenzione brillante che può durare per sempre". In questa concezione, che Padoa-Schioppa non condivide, lo stato-nazione resta il solo padrone, il Trattato di Maastricht del 1992 è stato il passo finale nella costruzione dell'edificio europeo, non sono necessari altri trasferimenti di sovranità e l'Unione europea può "fare a meno dei normali strumenti fiscali, finanziari e monetari prescritti da tutti i libri di testo".

Lo stato-nazione, modello superato - I due campi nemici, continua Padoa-Schioppa, hanno però in comune lo stesso credo: che lo stato-nazione continuerà a essere il sovrano assoluto nei suoi confini. E' il modello inventato dal Trattato di Westfalia del 1648.

Ma i due campi "non vedono che viviamo già in un mondo differente, dove il potere politico non può essere monopolizzato da un singolo detentore. Invece, è distribuito su una scala verticale che va dal municipale, al nazionale, al continentale, al globale. Entrambi i campi sembrano ignorare che la storia è un processo dinamico guidato da contraddizioni". In sostanza, la dinamica della storia sta superando il modello della sovranità assoluta dello stato-nazione.

Obiettivi fissati da tre agenzie di rating – Quando è arrivata la crisi, l'esercito anti-euro è avanzato. I "battaglioni" erano migliaia di sale di negoziazione "connesse in un network globale". Gli obiettivi erano fissati "dall'intelligence di tre agenzie di rating".

In questa battaglia, "la cittadella è emersa come vincitrice perché alla fine ha messo da parte esitazioni, pregiudizi e divisioni". Ma, secondo Padoa-Schioppa, in un senso più profondo ha anche perso, perché "ha sbagliato nel credere che l'euro e la piena sovranità nazionale siano compatibili".

La causa sbagliata - L'esercito degli aggressori tornerà alla carica. E' potente, ma "scommette sulla causa sbagliata": il "ritorno al vecchio mondo dei tassi di cambio flessibili, dove ciascun paese si illude di potersi isolare dai vicini e cerca di incoraggiare la crescita con svalutazioni competitive, venendo meno ai debiti quando gli conviene". Questo sistema, secondo Padoa-Schioppa, può solo produrre "miseria economica, conflitto e pericoli per la sicurezza globale".

La cittadella "combatte per la causa giusta", cioè salvare l'Unione monetaria europea, "ma il suo persistente credo, che l'ha tenuta troppo a lungo disarmata, le impedisce tuttora di andare fino in fondo con la necessaria riforma". Quello che è in gioco in questa battaglia, è in fin dei conti, "l'onnipotente stato-nazione", conclude Padoa-Schioppa.

14 maggio 2010

venerdì 8 gennaio 2010

cifre poco citate: il 60% degli immigrati è al nord, 12.5% al sud. Verso soglia 5 milioni

da un articolo di Repubblica dell'8 ottobre 2009:
Nel corso del 2008, il numero degli immigrati presenti in Italia é aumentato del 13,4%, per un totale di 3.891.295 persone al primo gennaio 2009.

gli immigrati rappresentano oggi il 6,5% della popolazione residente; all'inizio del 2008, erano il 5,8%.

Per quanto riguarda la distribuzione sul territorio, oltre il 60% degli immigrati risiede nel Nord Italia; il 25% si trova al Centro e il 12,8% vive nel Sud.

(in un articolo dell'estate, il Sole 24 Ore prevedeva per l'inizio 2010 il superamento della quota di 5 milioni di immigrati regolari)