venerdì 14 maggio 2010

Venti caldi da est: Missili hi-tech made in Cina minacciano le portaerei americane

da ilsole24ore del 13 maggio 2010
di Gianandrea Gaiani

Il confronto strategico tra Stati Uniti e Cina si combatte anche sul fronte tecnologico. E lo sviluppo di una nuova arma da parte di Pechino rischia, potenzialmente, di ridurre o addirittura cancellare la leadership delle portaerei americane. Leadership che si è imposta dalle fasi finali della Seconda guerra mondiale come sistema d'arma chiave per il dominio globale. §

Allarme al Pentagono. A ufficializzare l'esistenza della nuova minaccia "made in China" è stato il 23 marzo scorso l'ammiraglio Robert Willard, comandante della Flotta del Pacifico che al Congresso ha espresso preoccupazioni per il fatto che la Cina stia «sviluppando e sperimentando un missile balistico autoguidato di medio raggio a testa convenzionale ASBM (Anti Ship Ballistic Missile), destinato specificatamente a colpire le portaerei americane».

Raggio d'azione di 2mila chilometri. Si tratterebbe della versione D del missile balistico Dong Feng - 21 dotato di un raggio d'azione di circa 2 mila chilometri, sufficiente a coprire il Mar della Cina Meridionale e l'area marittima che potrebbe teoricamente divenire teatro di un confronto militare tra Washington e Pechino, specie in caso di conflitto per il controllo di Taiwan.

La flotta Usa nell'Asia-Pacifico. Le portaerei statunitensi hanno finora rappresentato il deterrente strategico più importante contro le minacce cinesi a Taipei e l'allargamento dell'area marittima controllata dalla Cina che negli ultimi ha trasformato la sua forza navale da costiera in oceanica. Sempre più spesso gruppi navali cinesi si spingono a ridosso delle coste giapponesi e fino all'Oceano Indiano, utilizzando le basi concesse dalla Birmania, mentre la nuova base di sottomarini realizzata nell'isola di Hainan (monitorata a distanza da navi spia americane) ha scatenato una corsa al riarmo navale in tutti i Paesi del sud-est asiatico.

Pechino pensa alle portaerei. La Cina prevede in futuro di dotarsi di portaerei e sta studiando da anni una nave di questo tipo acquistata in Russia (la Varyag). Ma ancora per molti anni Pechino non sarà in grado di contrastare sul mare la supremazia statunitense incentrata su 11 portaerei da quasi 100 mila tonnellate, cinque delle quali schierate nel Pacifico. Per questo lo sviluppo di missili balistici anti-nave, dotati di testate convenzionali ad alto esplosivo al posto di quelle nucleari, rischia di compromettere gli attuali equilibri e, in prospettiva, di ridimensionare il peso delle portaerei.

Alta tecnologia cinese. Secondo Andrea Tani, che ha curato un report su questo tema per il web-magazine Analisi Difesa i cinesi avrebbero installato sui missili Dong Feng D un sistema di autoguida terminale necessaria per colpire bersagli in movimento come le portaerei la cui localizzazione verrebbe garantita da radar costieri a lunga portata già presenti sulle coste cinesi e dai satelliti da osservazione. «Oggi ce ne sono 38 e diventeranno 65 nel 2014, 11 dei quali dedicati al ruolo navale. Il 5 marzo sono stati lanciati dal poligono di Jiuquan tre satelliti Yaogan IX, collegati direttamente al programma ASBM, che sembrano una fotocopia degli statunitensi White Cloud NOSS (e forse lo sono veramente). Orbitano in formazione e sono dotati di radar ad apertura sintetica e sensori infrarosso per scoprire le navi, nonché apparati elettronici per intercettare ed analizzare le loro emissioni affinando i dati di localizzazione» scrive Tani.

Missili velocissimi. L'elevata velocità (fino a 8 volte quella del suono) renderebbe difficile l'intercettazione di queste armi da parte dei sistemi antiaerei e antimissile delle portaerei e della loro scorta e il lancio di un gran numero di ordigni potrebbe saturare i sistemi di difesa. In un contesto reale una portaerei colpita da uno o più missili balistici potrebbe anche non affondare ma certo perderebbe ogni capacità di combattere. Arduo per ora valutare la reale operatività e capacità degli ASBM ma la notizia del loro sviluppo è bastata a enfatizzare ulteriormente la sfida strategica portata da Pechino e la percezione delle crescenti difficoltà di Washington a mantenere la supremazia militare globale. Per non parlare del rischio che questa tecnologia si diffonda presso altri stati dotati di missili balistici come Iran e Corea del Nord.

L'oro della Patria, quelle riserve contese (TPD nel 7 agosto 2007)

ilsole24ore del 7 agosto 2007
di Rossella Bocciarelli


Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ha chiarito il suo pensiero in un'intervista alla Stampa: le riserve, auree e non, sono un patrimonio nazionale; l'uso delle eccedenze a calo del debito è già stato deciso in altri Paesi; dunque, entro i limiti del rispetto dell'autonomia della Banca centrale, «Governo e Parlamento hanno pieno titolo a occuparsi di queste tematiche».
In pratica, dopo la risoluzione di maggioranza alla Camera sul Dpef, Padoa-Schioppa ha mandato un messaggio al Governatore della Banca d'Italia: questo tema, pur con le dovute attenzioni istituzionali, non dev'essere un tabù; anche perché, alla fin fine, l'oro è degli italiani. E se vogliono devolverlo alla Patria, debbono poterlo fare. O, almeno, debbono poterne parlare.
Sarà un caso, però, ma è bastato evocarla, quell'immagine dell'oro a sostegno delle pubbliche finanze, che fa venire in mente le fedi nuziali pretese dall'autarchia di fronte alle sanzioni, per far sobbalzare il differenziale Bund-Btp. Già, perchè a un Paese come il nostro, che con il suo 106,5 di debito pubblico in rapporto al Pil (in crescita per il secondo anno consecutivo) gode ancora del poco invidiabile primato di Stato più indebitato del mondo, le sanzioni le applica il mercato.
E così, dalla fine di luglio, il divario fra i titoli di Stato decennali italiani e gli omologhi tedeschi è tornato ad allargarsi verso i 30-35 punti base, nonostante la comune appartenenza dell'Italia e della Germania all'Europa monetaria. Il tutto, nel bel mezzo di un'estate nella quale non è poi che scarseggino i motivi d'inquietudine per la scena finanziaria internazionale. È questo l'elemento che sta generando qualche tensione tra via XX Settembre e via Nazionale. Non gli aspetti formali dei rapporti fra il Principe e il suo Tesoriere, garantiti da un Trattato europeo di rilevanza costituzionale, che Padoa-Schioppa, con il suo lungo curriculum di ex banchiere centrale, conosce praticamente a memoria.
In base a questi aspetti formali, in Italia il diritto di proprietà sulle riserve è della Banca d'Italia, non dello Stato. E viene utilizzato come presidio della stabilità finanziaria in senso ampio (Bankitalia è chiamata anche a fare il prestatore di ultima istanza nei confronti degli intermediari creditizi). Proprio perchè la proprietà della riserve doveva far capo alla banca centrale nel 1998 via Nazionale dovette acquistare le riserve dall'Ufficio italiano cambi, per poter ottemperare ai requisiti di Maastricht. Da quella cessione, poi, l'Uic ottenne degli utili che successivamente furono retrocessi al Tesoro, secondo una strategia concordata.
E qui veniamo a un punto importante. Senza il consenso della Banca d'Italia e della Banca centrale europea, un provvedimento di legge che si limitasse a imporre a Bankitalia la cessione dell'oro violerebbe l'articolo 108 del Trattato, quello in base al quale, per l'appunto, i governi non possono dare "ordini" alle banche centrali. Non è un caso, quindi, che nel 2003 alla richiesta del Governo finlandese di utilizzo delle riserve, la Bce abbia opposto un rifiuto e che la banca centrale di Helsinki, successivamente, quelle riserve non le abbia vendute; così come dopo un progetto del Governo francese si è successivamente arrivati a un netto ridimensionamento del disegno iniziale, limitando la finalizzazione della vendita delle riserve a obiettivi molto specifici e definiti.
C'è infine un altro muro tecnico-giuridico non da poco nel quale si rischierebbe di incappare. Vendere riserve per poi retrocedere gli utili andrebbe ad aumentare a dismisura il credito d'imposta della Banca d'Italia, che è già molto elevato: via Nazionale è infatti ancora in credito con l'Erario per 7 miliardi e 800 milioni, come coda del maxi-swap da 22 miliardi in titoli di Stato del 2002 . Il rischio è che scatti in tal modo un'altra violazione del Trattato europeo: quella dell'articolo 101, che vieta i finanziamenti allo Stato.

Padoa-Schioppa: l'euro è incompatibile con la piena sovranità nazionale (Ft)

da ilsole24ore del 14 maggio 2010
di Elysa Fazzino

Nella battaglia per l'euro, Tommaso Padoa-Schioppa spezza un'altra lancia a favore di una maggiore integrazione europea in un articolo pubblicato sul Financial Times, "L'euro rimane dalla parte giusta della storia". Secondo l'economista, considerato uno dei "padri fondatori" della moneta unica, è sbagliato credere che l'euro e la piena sovranità nazionale siano compatibili: questo credo impedisce all'Europa monetaria di andare fino in fondo con la "necessaria riforma", che comporta trasferimenti di sovranità.

Cittadella sotto assedio - Padoa-Schioppa, che è stato ministro dell'Economia e delle Finanze nel governo Prodi II e membro del board della Bce, usa la metafora della cittadella assediata per spiegare gli attacchi fatti all'euro negli ultimi mesi. L' "esercito" che ha assediato la "cittadella" della valuta europea, argomenta, è convinto che l'area dell'euro non possa mai diventare un'unione politica perché gli europei non lo desiderano e gli stati-nazione non rinunceranno mai al loro potere. Secondo gli aggressori, la cittadella è quindi destinata a capitolare.

I difensori della cittadella sono invece convinti che l'euro possa continuare a funzionare così com'è. "Per anni i capi di governo europei e i banchieri centrali hanno predicato che una moneta senza stato è un'invenzione brillante che può durare per sempre". In questa concezione, che Padoa-Schioppa non condivide, lo stato-nazione resta il solo padrone, il Trattato di Maastricht del 1992 è stato il passo finale nella costruzione dell'edificio europeo, non sono necessari altri trasferimenti di sovranità e l'Unione europea può "fare a meno dei normali strumenti fiscali, finanziari e monetari prescritti da tutti i libri di testo".

Lo stato-nazione, modello superato - I due campi nemici, continua Padoa-Schioppa, hanno però in comune lo stesso credo: che lo stato-nazione continuerà a essere il sovrano assoluto nei suoi confini. E' il modello inventato dal Trattato di Westfalia del 1648.

Ma i due campi "non vedono che viviamo già in un mondo differente, dove il potere politico non può essere monopolizzato da un singolo detentore. Invece, è distribuito su una scala verticale che va dal municipale, al nazionale, al continentale, al globale. Entrambi i campi sembrano ignorare che la storia è un processo dinamico guidato da contraddizioni". In sostanza, la dinamica della storia sta superando il modello della sovranità assoluta dello stato-nazione.

Obiettivi fissati da tre agenzie di rating – Quando è arrivata la crisi, l'esercito anti-euro è avanzato. I "battaglioni" erano migliaia di sale di negoziazione "connesse in un network globale". Gli obiettivi erano fissati "dall'intelligence di tre agenzie di rating".

In questa battaglia, "la cittadella è emersa come vincitrice perché alla fine ha messo da parte esitazioni, pregiudizi e divisioni". Ma, secondo Padoa-Schioppa, in un senso più profondo ha anche perso, perché "ha sbagliato nel credere che l'euro e la piena sovranità nazionale siano compatibili".

La causa sbagliata - L'esercito degli aggressori tornerà alla carica. E' potente, ma "scommette sulla causa sbagliata": il "ritorno al vecchio mondo dei tassi di cambio flessibili, dove ciascun paese si illude di potersi isolare dai vicini e cerca di incoraggiare la crescita con svalutazioni competitive, venendo meno ai debiti quando gli conviene". Questo sistema, secondo Padoa-Schioppa, può solo produrre "miseria economica, conflitto e pericoli per la sicurezza globale".

La cittadella "combatte per la causa giusta", cioè salvare l'Unione monetaria europea, "ma il suo persistente credo, che l'ha tenuta troppo a lungo disarmata, le impedisce tuttora di andare fino in fondo con la necessaria riforma". Quello che è in gioco in questa battaglia, è in fin dei conti, "l'onnipotente stato-nazione", conclude Padoa-Schioppa.

14 maggio 2010