lunedì 21 dicembre 2009

Spaemann

Robert Spaemann su Il cannibale e la libertà

sabato 28 novembre 2009

Come nascono le superstizioni colte

(via piccolozaccheo)

Nel quadro più generale di una “archeologia delle certezze moderne”, non sfigurerebbe un capitolo marginale, dedicato all’analisi critica dei numerosissimi “miti” dell’esegesi storica, e in particolare della divulgazione “scientifica” sul cristianesimo: non per condannare queste ultime – come spesso, frettolosamente, si fa – quanto piuttosto per relativizzare tutte quelle ipotesi storiografiche che, in ossequio alla celeberrima legge di C.S. Lewis (*), vengono spacciate dai mezzi di informazione come verità acquisite e indiscutibili, o assurte a luogo comune a tal punto da ingenerare fraintendimenti e distorsioni di ogni genere (alcuni esempi: la discontinuità fra Gesù e Paolo, la precoce ellenizzazione del cristianesimo, la svolta costantiniana, la data del Natale desunta da festività mitraiche, i vari “oscurantismi” medievali, la natura repressiva della cosiddetta Controriforma, etc. etc. etc.).

D’altronde, non risulta sempre così facile rintracciare l’origine di certe superstizioni cólte, proprio per la loro diffusione capillare. Un tentativo ben riuscito, in questa direzione, si trova in un libro che mi è capitato fra le mani di recente: Inventing the Flat Earth. Columbus and Modern Historians, di Jeffrey B. Russell (New York, 1991).

L’autore cerca di ricostruire la storia del pregiudizio per cui la gente, prima del viaggio di Cristoforo Colombo, avrebbe vissuto nella convinzione che la Terra fosse piatta. Le origini di questo colossale pregiudizio storico, tuttora diffussissimo, vengono individuate in un fortunato ritratto biografico di Colombo, scritto dall’americano Washington Irving (l’autore di Rip Van Winckle), nel 1828. Il romanzo di Irving godette di enorme successo per tutto l’Ottocento, soprattutto in concomitanza con l’espansione delle prime teorie evoluzioniste (testa di ponte, all’epoca, del colonialismo e dell’imperialismo w.a.s.p.).

Qualunque storico serio, già allora, avrebbe tuttavia potuto obiettare, senza particolari difficoltà, che la sfericità della Terra venne data per scontata sin dall’epoca antica, e per tutto il Medioevo:

From the fourth century before Christ almost all the Greek pilosophers maintained the sphericity of the earth; the Romans adopted the Greek spherical views; and the Christians fathers and early medieval writers, with few exceptions, agreed. During the Middle Ages, Christian theology showed little if any tendency to dispute sphericity (op. cit., p. 69).

I cristiani, in questo come in altri casi, si limitarono a proseguire e far proprie le discussioni scientifiche del mondo greco e latino. In epoca tardo-antica, peraltro, si possono segnalare soltanto cinque autori che abbiano messo in discussione la sfericità della Terra: Lattanzio († 345), Teodoro di Mopsuestia († 430), Diodoro di Tarso († 394), Severiano di Gabala († 380 ca.) e Cosma Indicopleuste († 540 ca.). Dei primi tre, precisa Russell, non si ha nemmeno una certezza assoluta (la negazione di Lattanzio, ad es., si ricava da un passo in cui contesta l’esistenza degli “antipodi”); inoltre, dettaglio di non poco conto, soltanto gli ultimi due si appoggiarono a un’interpretazione letteralista di passi scritturistici.

(*) La legge di C.S. Lewis: «Che sciocco sei! Sono i lettori colti quelli che si possono imbrogliare. La vera difficoltà sono gli altri. Quando mai hai conosciuto un operaio che crede a ciò che dicono i giornali? Parte dal presupposto che fan solo propaganda e quindi salta a piè pari agli articoli di fondo. Compra i giornali per i risultati delle partite di calcio e per i trafiletti sulle ragazze che cadono dalla finestra o sui cadaveri che vengono rinvenuti in qualche appartamento… È lui il nostro problema: dobbiamo cambiargli la testa. Ma le persone istruite, quando leggono le riviste intellettuali, non hanno bisogno che gli si cambi la testa. Credono già a tutto» (tratta dal romanzo Quell’orribile forza, 1949, trad. it. Milano 1999, pp. 131-132).

Scendere

"il punto estremo cui è sprofondata la (cosiddetta) cultura occidentale: ci si parla senza ascoltarsi, si ritiene che comunicare sia la reciproca esposizione dei diversi punti di vista (considerati aprioristicamente paritari), evitando accuratamente qualsiasi tentativo di sintesi.
Vorrei scendere, si può?"

(da non so dove)

the fall?



Oublions l'Amérique et son coca-cola
Son président fasciste et son impérialisme
T'as pris tout ce qu'il y avait de bon là-bas en Amérique
Marylin, le rock, la cocaïne et les sodas
Mais moi je veux pas de leurs missiles atomiques
De leurs danses, de leur disco, de leurs putains d'ordinateurs
John Wayne était un faf et chassait les sorcières
Fini le rodéo, la danse du scalp, vive le pogo
Oublions l'Amérique contre les bolchéviks
Fini les bons ricains contre les méchants rouges
Bien sûr il y a la Pologne et puis l'Afghanistan Mais il y a le Vietnam et aussi le Chili
Oublions l'Amérique et son putain de coca-cola
Il n'y a pas que des princes à la CIA
Mais moi je veux pas de leur idéal patriotique
Oublions l'Amérique, Oublions l'Amérique …


(cover dei Wunderbach, dei Nouvelle Vague. abituarsi all'idea?)

martedì 3 novembre 2009

Dal corpo all'anima

La memoria dei defunti
di Carlo Carletti
(Osservatore Romano, 2 novembre 2009)

L'origine della ricorrenza del 2 novembre dedicata alla commemorazione dei defunti si colloca alla fine del primo millennio nell'ambito del monachesimo benedettino cluniacense. È infatti nell'anno 998, che Odilone di Mercoeur, quinto abate di Cluny (circa 961 - 1049), dispone l'inserimento nel calendario liturgico cluniacense di una commemorazione per i defunti "di tutto il mondo e di tutti i tempi" da celebrarsi il secondo giorno del mese di novembre: "Si decreta dal nostro padre Odilone, su richiesta e con il consenso di tutti i confratelli cluniacensi, che come in tutte le chiese di Dio di tutto il mondo si celebra la festa di Ognissanti nel primo giorno di Novembre, così presso di noi sia celebrata solennemente la commemorazione di tutti i defunti in questo modo: nel giorno di Ognissanti, dopo il capitolo, il decano e il cellerario faranno una elemosina di pane e vino a tutti i poveri che si presenteranno, come nella cena del Signore; (...) nello stesso giorno dopo i vespri si suoneranno tutte le campane e si celebrerà l'officio dei morti; la messa mattutina (quella del 2 novembre) sarà officiata solennemente e con il suono delle campane; saranno celebrate messe in privato e pubblicamente per il riposo delle anime di tutti i fedeli e sarà offerto del cibo a dodici poveri (Statutum sancti Odilonis de defunctis, pl, 142, colonne 1037-1038). L'estensione all'intera Chiesa di questa commemorazione sembra potersi rintracciare per la prima volta nell'Ordo Romanus del XIV secolo, dove il giorno del 2 novembre è indicato come anniversarium omnium animarum (Ildefonso Schuster, Liber Sacramentorum, IV, Torino 1932, p. 85).
Nell'antichità - sia tra i pagani sia tra i cristiani - la commemorazione dei defunti seguiva coordinate temporali diverse, circoscritte all'ambito privato e per lo più domestico. Il calendario era mobile, perché corrispondente all'anniversario dei singoli defunti, che per i pagani era il giorno della nascita (dies natalis) per i cristiani quello della morte, anch'esso definito dies natalis, ma inteso - con "slittamento semantico" - come nascita alla vita eterna. La celebrazione a Roma dei parentalia, come evento pubblico celebrato tra il 13 e il 21 febbraio, non sostituisce la prassi secolare delle commemorazioni gentilizie e familiari (parentatio), ma sostanzialmente la integra, partecipandola all'intera comunità, in una serie di rituali e pratiche, che prevedevano la visita ai sepolcri - che venivano cosparsi di fiori (rosalia, violatio) - e soprattutto la consumazione di un pasto "comune", riservato a parenti e amici del defunto, che si svolgeva il 22 febbraio (caristie).
L'offerta dei fiori e la celebrazione del convito sono espressamente ricordati in un'iscrizione ravennate del III secolo: un collegio funeraticiodona una somma per la celebrazione anniversaria, ma pone la condizione (sub hac condicione) che "ogni anno il sepolcro sia cosparso di rose e che lì (cioè presso il sepolcro) si svolga anche il banchetto: quotannis rosas ad monumentum ei spargant et ibi epulentur (Corpus Inscriptionum Latinarum, xi, 132). A Roma, analogamente, un defunto di nome Caius Turius Lollianus, parlando in prima persona attraverso il suo epitaffio, chiede ai colleghi della sua corporazione (peto vobis collegae), che per il 12 marzo - giorno della sua nascita - siano destinate somme adeguate per la celebrazione: 25 denari per i parentalia, 11 denari e mezzo per l'acquisto delle rose (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 9626).
Una vivace e realistica "istantanea" di questi riti funerari è quella che si legge in una iscrizione pagana in versi di Satafis nella Mauretania Caesarensis (odierna Aïn el Kebira in Algeria). È la cronaca di un convito funebre consumato per onorare la memoria di una cara congiunta, Aelia Secundula, la mamma della dedicante ufficiale dell'iscrizione, Statulenia Giulia (Corpus Inscriptionum Latinarum, viii, 20277): "In memoria di Elia Secundula. Noi tutti abbiamo già provveduto a disporre quanto necessario al rituale funerario sull'altare della madre Secundula qui deposta. Abbiamo provveduto ad apparecchiare la mensa di pietra, intorno alla quale ricordare le sue numerose opere virtuose, mentre vengono apprestati e offerti cibi e calici e coperte per imbandire la mensa, affinché possa essere sanata la crudele ferita che ci lacera il cuore quando a tarda ora riprendiamo volentieri ricordi e lodi della buona e pia madre, la dolce vecchietta. Visse settantacinque anni. Nell'anno duecentosessantesimo della provincia fece Statulenia Giulia". Questo convito, strettamente domestico - come anche indicato dalla dedica suppletiva "i figli alla dolce madre" che si ricava dalla lettura sequenziale delle lettere iniziali (acrostico) e finali (telestico) di ciascun rigo - si svolge nell'anno duecentosessantesimo dell'era locale della Mauretania (che inizia nel 39 dell'era cristiana), corrispondente all'anno consolare 299. È ovvio immaginare che intorno alla tavola vi fossero le klinai ("letti tricliniari") sulle quali si disponevano semisdraiati i commensali, i quali fino a tarda ora si trattengono nel rievocare le virtù della "vecchietta" (vetula) e gli eventi che ne contrassegnarono la vita: in qua magna eius memorantes plurima facta (...) libenter fabulas dum sera reddimus hora / castae matri bonae laudesque.
Per l'iscrizione di Aelia Secundula è quasi d'obbligo il confronto con un mosaico funerario iscritto su una mensa, inserita al centro di un letto tricliniare nella consueta forma lunata (sigma): l'impianto fu realizzato verso la fine del IV secolo nella vasta area cimiteriale di Matarès prossima alla città di Timgad (Mauretania Caesarensis, Algeria). Sullo sfondo dell'epigrafe - in sintonia con la funzionalità di un impianto destinato ai banchetti - è rappresentato una variegata e realistica "campionatura" di fauna marina più che appetibile: vi si distinguono agevolmente uno sciarrano, un pagello, una sardina, una aragosta, una cernia. L'iscrizione mentre ripropone la realtà di un banchetto funerario, qualifica in termini inequivocabili l'identità dei committenti nella formula iniziale: in Chr(isto) Deo, pax et concordia sit convivio nostro: "In (nome) di Cristo Dio regni nel nostro banchetto pace e concordia" (L'Année épigraphique, 1979, n. 682).
La concordia e la pax evocate nel mosaico di Timgad richiamano immediatamente uno straordinario (anche per l'eccezionale stato di conservazione) complesso figurativo-epigrafico del cimitero romano dei santi Marcellino e Pietro sulla via Labicana. Si tratta di scritte tracciate a pennello che accompagnano e "danno la parola" a una serie di personaggi rappresentati mentre banchettano, si direbbe, in composta allegria: i convitati, solo uomini, semisdraiati sui letti tricliniari, richiedono "il bere" alle ancelle (solo donne), chiamandole sempre con i nomi di Irene e Agape: Agape misce nobis ("Agape versaci da bere"), Irene por(ri)ge calda ("Agape dammi [acqua] calda" (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, vi 15942-1594). La ricorrenza per ben dodici volte dei medesimi nomi (Agape e Irene) induce legittimamente a supporre che questi forme onomastiche - peraltro diffusissime nella tarda antichità - rivestano la doppia funzione di designare, seppur genericamente, le inservienti e nel contempo evocare i concetti espressi nelle due forme onomastiche, vale a dire "pace" e "carità". I commensali si rivolgono alle ancelle con espressioni tipicamente conviviali che, seppure ellittiche, consentono di decifrare tipo e qualità della bevanda consumata: la menzione dell'aggettivo sostantivato "calda" (sincope per calidam) traduce esattamente la prassi abituale dei romani che bevevano vino stemperato con acqua calda o fredda: una miscela, che nel linguaggio comune veniva appunto denominata mixtio, come indica ad esempio un graffito pompeiano (Corpus Inscriptionum Latinarum, iv, 1292) e, ancor più dettagliatamente, la dedica di un collegium fabrorum che, in occasione del giorno della nascita dell'imperatore Adriano, provvede alla distribuzione gratuita di pane e vino (le sportulae) e al relativo servizio: panem et vinum et caldam praestari placuit (Corpus Inscriptionum Latinarum, vi, 33885). In età romana il vino puro (merum), se non miscelato con acqua calda o fredda e talvolta con miele (mulsum), era praticamente imbevibile, perché denso, amaro, eccessivamente alcolico.
Le coppie lessicali-onomastiche concordia-pax e Agape-Irene sono ambedue funzionali a evocare, a Timgad come a Roma, l'atmosfera che presiedeva o doveva presiedere allo svolgimento di un convito funerario; ma a Roma non passa inosservata la presenza del termine identitario agape (caritas) in luogo di concordia, meno ideologicamente connotato. Non è allora pura casualità che nelle iscrizioni funerarie di Roma, accanto alle normative e diffusissime in pace / en eirene, si leggano le acclamazioni greche èis agàpen, en agàpe, metà agàpes nonché il calco latino in agape (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, i 2976; vi, 15869; iv, 12185; i, 3025, 3426, 3781; iv, 12469; v, 14282) e che nell'onomastica di Roma si osservi una notevolissima diffusione dei nomi Irene e Agape (tecnicamente si tratta di cognomina): il primo largamente impiegato fin dal I secolo anche in ambiente pagano, il secondo pressoché esclusivo dei cristiani; l'uno e l'altro (e soprattutto Irene) particolarmente diffusi in ambiente servile e libertino (Die Griechischen Personennamen in Rom. Ein Namenbuch, I-III, von Heikki Solin, Berlin - New York, 2003², pp. 458-463, 1277-1278).
Queste testimonianze sono solo una esemplificazione di un fenomeno di enorme portata che soprattutto tra i secoli iii e vi si manifesta in tutta l'area mediterranea, con una documentazione rilevante che si estende dalle testimonianze archeologiche a quelle epigrafiche e figurative. L'epicentro di queste pratiche funerarie si localizza soprattutto in Africa donde - come sembra - si estende rapidamente a tutta l'area del Mediterraneo con particolare incidenza in Spagna (Cartagena, Italica, Tarragona), a Malta, in Sardegna (Cornus e Turris Libisonis), a Roma (nelle catacombe e nel sepolcreto dell'Isola Sacra).
Una lettura storico-culturale di questo fenomeno epocale fa emergere una inscindibile interrelazione tra la commemorazione privata del dies mortis e la relativa pratica del banchetto funerario. Due momenti - tra loro complementari - di un evento commemorativo periodico, definito e regolato in codici rituali che, nel corso della tarda antichità e particolarmente nel bacino mediterraneo occidentale, è condivisa e praticata sia dalla componente pagana sia da quella cristiana della società tardoantica. Il terreno su cui si sviluppa e dal quale prende alimento non è quello di uno specifico "religioso", ma piuttosto quello della "memoria condivisa", in cui si sedimentano i vincoli familiare e sociali, trasversali alle diverse identità. C'è al fondo - per dirla con Gabriel Sanders - quella "sincronia dei discorsi sulla morte", il cui ingrediente qualificante e coesivo è il rifiuto istintivo che la vita oppone all'irruzione, sempre umanamente traumatica, dell'evento ultimo.
Ma queste pratiche non perdurano all'infinito: alla fine della tarda antichità vengono progressivamente abbandonate e con l'inizio dell'alto medioevo tendono progressivamente a scomparire o, quantomeno, a modificarsi. Le cause prossime di questo mutamento si possono cogliere in due fattori concomitanti. In primo luogo vi è l'abbandono dei cimiteri suburbani e il rientro dei morti nell'ambito stesso della città, dove le deposizioni di concentrano all'interno stesso delle chiese o in prossimità di esse, creando un'unità inscindibile tra cimitero ed edificio di culto. Ai grandi spazi funerari del suburbio succedono le superfici anguste e comunque definite delle chiese e questo aspetto produce un progressivo mutamento comportamentale nel rispetto stesso delle sepolture, che sempre più frequentemente vengono manomesse e riutilizzate; anche l'uso dell'iscrizione funeraria si riduce sensibilmente e finisce per essere monopolizzata dalle élites cittadine laiche ed ecclesiastiche, che talvolta manifestano la preoccupazione per la intangibilità delle loro sepoltura lanciando terribili minacce verso i potenziali violatori. In secondo luogo c'è un progressivo cambiamento di mentalità, una più consapevole percezione del mistero della morte, già sollecitata da figure di spicco come Agostino e Gregorio Magno: la sollicitas verso i defunti si sposta progressivamente dal sepolcro, dal corpo corruttibile e si volge verso l'anima.
Agostino indica proprio nella sua Africa il luogo dove, in occasione dei rituali funerari, più che altrove si manifestavano eccessi incompatibili con l'identità vocazionale dei cristiani: "Se l'Africa per prima cercasse di eliminare siffatti disordini (cioè le ubriachezze e le dissolutezze dei conviti), meriterebbe di essere degna di imitazione da parte di tutti gli altri Paesi: e invece noi, mentre nella maggior parte dell'Italia e in tutte o quasi tutte le altre Chiese transmarine essi non esistono (...) come possiamo ancora esitare nel correggere una usanza così abominevole? (Epistolae, 22, 1, 4). La risposta di Agostino è quella, di stringente coerenza, esposta nel De cura pro mortuis gerenda, scritto appositamente per rispondere ai preoccupati quesiti che gli poneva Paolino di Nola circa la liceità e l'utilità delle sepolture ad sanctos: "In definitiva noi pensiamo di poter essere di aiuto ai morti soltanto suffragandoli devotamente con il sacrificio eucaristico, con le preghiere, con le elemosine (...) Riguardo poi alle onoranze del corpo qualunque cosa si faccia, non porta alcun vantaggio alla sua salvezza, ma è un dovere di umanità per quell'affetto naturale per il quale - come diceva Paolo (Efesini, 5, 29) - nessuno ha mai avuto in odio la propria carne" (18, 22). Non diversamente Gregorio Magno insisteva, forse più che sant'Agostino, sul ruolo fondamentale della celebrazione eucaristica. Al suo nome non a caso è collegata la pratica delle "trenta messe" da celebrare per trenta giorni consecutivi e passate alla storia appunto come "messe gregoriane". Origine e motivazioni di questa iniziativa sono raccontate con toni vivaci e immaginifici in un passo dei Dialoghi (4, 57, 14): "Erano ormai passati trenta giorni dalla morte di Giusto (un monaco confratello di Gregorio) e io cominciai ad avere compassione di lui (...) e mi chiedevo se vi fosse qualche mezzo per liberarlo (con allusione al Purgatorio). Allora, chiamato il priore del nostro monastero, Prezioso, accorato gli dissi: da tanto tempo, ormai, quel nostro fratello morto è nel tormento del fuoco. Gli dobbiamo un atto di carità (...) Va', dunque, e da oggi, per trenta giorni consecutivi, abbi cura di offrire per lui il Santo Sacrificio".
Il progressivo prevalere di pratiche specificamente cristiane - preghiera, sacrificio eucaristico, elemosine - apriva nuove prospettive spirituali, mentali e comportamentali ormai diverse rispetto alle consuetudini ancestrali. Soprattutto per iniziativa delle comunità monastiche maturò un nuovo "modello", che poneva la comunità cristiana (e con ruolo prevalente la gerarchia) al centro della commemorazione dei defunti, accanto o addirittura in sostituzione della famiglia: l'Eucaristia, celebrata in occasione dei funerali e degli anniversari della morte, l'evocazione di tutti i defunti nel corso della messa (memento), la distribuzione delle elemosine ai poveri, contribuirono a "spiritualizzare" un culto che per secoli si era mosso tra i confini non sempre definiti del sacro e del profano. Da queste trasformazioni derivano indotti collaterali che avranno fortuna secolare. È intorno alla metà dell'VIII secolo che cominciano a costituirsi le prime forme associative - da cui le confraternite - costituite da vescovi e abati, con lo scopo di assicurare il conforto religioso ai "soci" defunti, con la celebrazione di messe "speciali" e la recitazione del Salterio. Un'associazione di questo tipo è quella, ad esempio, che si costituisce ad Attigny nel 762 per iniziativa di ecclesiastici (vescovi e abati) che accolgono però anche laici: i primi si impegnano a far recitare cento volte il Salterio, celebrare personalmente trenta messe e farne celebrare personalmente altre cento alla morte di ciascun socio; i secondi contribuiscono con donazioni alle diverse comunità religiose rappresentate nell'associazione. Il numero degli aderenti a queste pie confraternite diviene col tempo così alto, che i loro nomi durante le celebrazioni, anziché essere pronunciati, sono tacitamente ricordati deponendo sull'altare i libri memoriales o libri vitae: elenchi di defunti, talvolta lunghissimi, come quello del monastero di Reichnau (chiesa di Niederzell dedicata a Pietro e Paolo) che arrivò nel tempo a contenere oltre quarantamila nomi. Generalmente trascritti su supporti pergamenacei, gli elenchi erano talvolta incisi sulle lastre d'altare (sempre a Reichnau), ovvero sul retro di dittici eburnei tardo antichi, come nel caso della riutilizzazione di un celebre esemplare - prodotto nel V secolo a Costantinopoli - reimpiegato alla fine del VII secolo in Provenza per accogliere anche qui una lunga lista, che si apre con una serie di oltre trecento nomi di vescovi e si chiude con la menzione dei sovrani franchi succedutisi fra il 575 e il 662.
Nella società cristiana altomedievale - acquietati i dibattiti sull'aldilà e sui tempi e i modi della sorte immediata delle anime - si andava ormai imponendo il principio che l'unica morte da temere era quella dell'anima e che dunque solo a essa doveva rivolgersi la sollicitas dei sopravvissuti. In questo nuovo ordine di "idee" l'angoscia per la morte fisica e il timore del giudizio cui era destinata l'anima furono convogliate verso una prospettiva penitenziale, mentre l'"esperienza visibile" della ineluttabile consunzione del corpo si proponeva come elemento di forte impatto per la denuncia e il disprezzo delle realtà mondane e, nel contempo, come motivo di riflessione verso la "conversione".
Gli ammonimenti di sant'Agostino erano ormai penetrati in profondità nella Chiesa occidentale. La grandiosità delle esequie, la pratica delle commemorazioni possono consolare quelli che restano ma non recano alcun vantaggio a quelli che se ne vanno" (magis sunt vivorum solatia, quam subsidia mortuorum). E in questa nuova prospettiva il vescovo di Ippona aveva richiamato la parabola del povero Lazzaro (Luca, 16, 19-22): "se per il ricco vestito di porpora tutta la servitù familiare allestì un funerale splendido agli occhi degli uomini (in cospectu hominum), molto più splendido agli occhi di Dio (sed multo clariores in cospectu Domini) ne fu allestito un altro per quel povero pieno di piaghe da parte degli Angeli, i quali non lo deposero in un mausoleo di marmo, ma lo innalzarono nel seno di Abramo" (De cura, 2, 4).

domenica 25 ottobre 2009

Il Pil non è tutto uguale per cicale e formiche(dal Sole 24 Ore)

di Marco Fortis

In tempi di generale disorientamento come questi è necessario recuperare quella visione prospettica che era una caratteristica dell'approccio degli economisti storico-teorici come Simon Kuznets, che teorizzavano i "movimenti secolari", o di grandi personalità del pensiero economico italiano come Giorgio Fuà, che ha analizzato i cicli dell'Italia tracciandone una precisa stilizzazione di lungo periodo. E vale la pena chiedersi: fino a che punto nell'ultimo quindicennio un modello squilibrato, basato sull'aumento al di fuori di ogni controllo della finanza, dell'immobiliare e dell'indebitamento del settore privato, ha marcato la differenza di crescita economica tra i "paesi cicala", Usa, Gran Bretagna e Spagna, da un lato, e i "paesi formica", Francia, Germania e Italia, dall'altro, che hanno continuato a svilupparsi soprattutto facendo leva sull'economia reale? E adesso che, scoppiata la crisi, per i paesi cicala si prospetta anche una difficoltosa exit strategy dal nuovo debito pubblico creato per sanare i debiti privati, come cambierà il giudizio della storia su di essi? Inoltre, c'è stato realmente negli ultimi anni, alla luce della nostra mancata "bolla" immobiliare e finanziaria, quel "declino" dell'Italia che per molti è diventato quasi una verità di fede?
Se guardiamo alle statistiche di lungo periodo sulla crescita del Pil pro capite ricostruite da Angus Maddison (si veda la tabella a pagina 8), vediamo che nel 1950-1973 il Giappone è stato il paese con il più forte sviluppo assieme alla Germania, ma sono cresciute molto anche Italia e Spagna in un tipico processo di convergenza, mentre Usa e Regno Unito sono stati i fanalini di coda. Questi ultimi due paesi sono cresciuti poco anche tra il 1973 e il 1995, mentre sono stati ancora Italia, Spagna e Giappone ad avere i tassi di sviluppo più forti anche se con una decelerazione verso fine periodo.
Nel secondo dopoguerra il miracolo tanto esaltato dei paesi anglosassoni è dunque risultato circoscritto esclusivamente al 1995-2006: infatti, in questo periodo Usa e Regno Unito accelerano, mentre la Spagna cresce persino più che nel 1973-1995.
Merito di tecnologia-terziario avanzato-liberalizzazioni-efficienza della pubblica amministrazione-meritocrazia (fattori virtuosi che anche noi reputiamo come tali) o dei debiti?
All'opposto i paesi formica Germania, Italia e Francia nel 1995-2006 hanno fortemente rallentato. Colpa di un modello di sviluppo superato o perché i tre grandi Paesi dell'Euroarea hanno fatto molti sacrifici per cementare l'euro e pochi debiti?
La risposta va cercata in buona parte nella contabilità poco conosciuta del debito "aggregato": aspetto cruciale di cui proponiamo una contabilità nuova, coerente con lo schema adottato per la definizione del debito del settore privato dalla Banca centrale spagnola. Al debito pubblico rilevato tradizionalmente secondo i criteri di Maastricht, sommiamo il debito del settore non finanziario privato misurato come somma dei prestiti totali erogati a famiglie, enti non profit e imprese più lo stock di titoli diversi dalle azioni emessi da enti e imprese.
Come appare dalla tabella qui sopra, nel 1995 il debito "aggregato" più elevato in percentuale del Pil tra i cinque maggiori Paesi Ue e gli Usa era quello dell'Italia, che tuttavia sorprendentemente non era di molto superiore a quello di Usa e Uk (come già evidenziato anche da Massimo Mucchetti sul Corriere della sera, sia pure con serie storiche differenti). Su valori più bassi si collocavano Germania, Francia e Spagna. Il nostro tallone d'Achille era il debito pubblico, entità macroeconomica sotto i riflettori di tutto il mondo, mentre americani e inglesi già presentavano valori molto elevati del debito microeconomico delle famiglie, ma ancora non tali da costituire una realtà macroeconomica preoccupante. A quell'epoca si guardava pressoché solo al debito pubblico come cartina di tornasole per capire l'equilibrio finanziario di una nazione, sicché l'Italia era unanimemente additata come la "pecora nera".
È tra il 1995 e il 2007 che avviene il disastro. Infatti, mentre il debito "aggregato" dell'Italia cresce solo di 17 punti di Pil e quello della Germania di 25 punti, il debito aggregato di Usa, Gran Bretagna e Spagna esplode: rispettivamente, di 54, 77 e 120 punti di Pil, sotto l'impulso del settore privato, i cui squilibri da microeconomici diventano macroeconomici. Il debito aggregato del settore non finanziario americano cresce soprattutto per effetto dei debiti delle famiglie, quello degli inglesi e degli spagnoli per l'effetto congiunto del boom dei debiti di famiglie e imprese. In definitiva, tra il 1995 e il 2007 la diversa crescita del Pil pro capite dei paesi "cicala" e "formica" è stata direttamente proporzionale alla crescita del debito aggregato del settore non finanziario.
Ma non è finita. Ora aumenteranno i debiti pubblici dei Paesi cicala che presentano le situazioni finanziarie private più dissestate. Sicché, se facendo un rozzo esercizio previsionale tenessimo invariati i debiti privati del 2007 e considerassimo le previsioni sui debiti pubblici della Commissione europea e del governo Usa, nel 2010 a fronte di un debito aggregato dell'Italia e della Germania pari, rispettivamente, al 223% e al 205% del Pil, il debito aggregato degli Usa salirebbe al 275%, quello della Spagna al 277% e quello della Gran Bretagna al 291%.
Dunque negli ultimi anni l'Italia, pur frenata dalle sue croniche inefficienze, non soltanto ha perso meno quote di mercato nell'export mondiale di manufatti rispetto agli altri maggiori paesi avanzati accrescendo il suo peso nel G-7 (come abbiamo già evidenziato su queste colonne l'11 giugno scorso), ma ha avuto anche una dinamica del Pil pro capite solo apparentemente modesta se depuriamo la crescita altrui dell'effetto debito. Inoltre, il Nord-Centro del nostro paese, dove vive una popolazione circa uguale a quella spagnola, ha tuttora un Pil pro capite a parità di potere d'acquisto di 7.000 euro più alto di quello della Spagna.
Questa crisi ha ancora molto da insegnare, soprattutto in una prospettiva storica. Ammesso che si abbia realmente voglia di imparare dalla storia.

05 luglio 2009

mercoledì 21 ottobre 2009

Aveva già detto tutto.

La stampa quotidiana e il telegrafo, che dissemina le sue elucubrazioni in un batter d’occhio su tutta la superficie della terra, fabbrica più miti – e il bovino borghese li crede e li propaga – in una giornata di quanti se ne potessero diffondere in un secolo nell’antichità.

(Karl Marx)

lunedì 12 ottobre 2009

A Mooreish solution

It's not surprising that Michael Moore is a committed Catholic – the social teaching of the church reflects his views pretty closely

The Guardian, 12/10/09

The clip has become a hit on YouTube. In a discussion about Michael Moore's new documentary, Capitalism: A Love Story, Sean Hannity, a stupendously rightwing host on Fox News, invites the leftwing documentary-maker to classify himself as an "unapologetic socialist".

"Christian", Moore corrects him.

Taken aback, Hannity protests that he is too.

"I believe in what Jesus said", says Moore.

"So do I", Hannity quickly replies.

Moore then narrows it down. "You're a Catholic?"

"I'm a Catholic", agrees Hannity.

And yes, they both go to Mass each Sunday – which is no great surprise, this being America, and both men of Irish extraction. But when Moore asks Hannity to identify last week's gospel, Hannity is clearly shaken, and mumbles about having arrived at church late.

The gospel, it turns out, was about it being harder for a rich man to enter heaven than a camel to pass through the eye of a needle.

In his new film Moore is firing some deadly shells into the heart of rightwing America by contesting the assumption that God is on the side of capitalism. In his broadside against free-market dogma and corporate greed, he harnesses two Catholic priests and a retired auxiliary bishop in his crusade, which focuses on the role of General Motors' management in the decline of his hometown of Flint, Michigan. The ironically named Capitalism: A Love Story chronicles the effects of economic dysfunction on vulnerable individuals and their families – what happens when profit is put before people, and individuals are treated as commodities.

Moore the anti-capitalist enragé gets his indignation, it turns out, not from an alienated youth buried in Gramsci, but from the nuns who taught him at school. And where did they get it? From Catholic teaching, of course – specifically the great social encyclicals of the popes from the late 19th century onwards, which are as bitter in their criticism of unbridled markets as they are in denouncing the response to it of state socialism.

Moore's fury is straight out of Pope Leo XIII's 1891 encyclical, Rerum Novarum, which deplored the way a large mass of people were kept in conditions "little better than slavery itself" by a minority of wealthy capitalists. Pope Leo laid out the solutions: just wages (based on the need of the worker, not the lowest the market could bear), the duty of the state to intervene to correct abuses, the spread of private property to the propertyless, and the right to form trade unions and negotiate decent wages. Rerum Novarum was heavily influenced by the speeches of a British cardinal, Edward Manning, who declared that "if the hours of labour have no other object but the gain of the employer, no working man can live a life worthy of a dignified human being".

What the popes, like Moore, have deplored is the belief that market forces should be left to themselves – an idea, of course, promoted by those who have most benefitted from lack of regulation. Pope Pius XI in Quadragesimo Anno – written in 1931, in the wake of the Wall St crash – deplores the belief that "the free play of rugged competition" could in some way lead to the proper ordering of the economy: "from this source as from a polluted spring have proceeded all the errors of the 'individualist' school", he warned. More recently, Pope John Paul II in 1991 deplored a "radical capitalistic ideology" which is fails to consider the impact of marginalisation and exploitation, and which "blindly entrusts their solution to the free development of market forces".

Catholicism is not opposed to capitalism per se, but to the way in which, left to itself, the market commodifies and alienates human beings; and it especially opposes the ideology which makes of the market a kind of god and a human being merely a factor of production and consumption.

What Catholic social teaching advances is not socialism, for it resists the idea that the state should have a monopoly of capitalism, but a vigorous civil society which can act as a check on both state and market. In recent centuries, when capitalism mugged Christianity, charity has been too often portrayed as religious Republicans in the US too often see it – giving to good causes, but never questioning the system itself or its beneficiaries. But that is not how it was in the early centuries of the church, when bishops lambasted their rich neighbours for hoarding grain to increase prices while farmers and their families wept from hunger.

When Michael Moore tells Hannity the meaning of the gospel that the host couldn't recall – that "we'll be judged according to how we treat the least among us" – he was echoing a long Christian tradition, stretching back through the early church to Jesus' words to his disciples in Matthew 25. If we ignore the impact of our actions on the vulnerable – and that includes collateralised debt obligations and high-interest credit actions – it will not be enough to proclaim that the market will in turn right itself. As Bishop Basil put it in 368, "Wipe out the oppressive contract of usury ... You and all your wealth will share one death." It's vicious, radical, simplistic stuff – and quite Mooreish.

domenica 4 ottobre 2009

4 ottobre, Francesco, patrono d'Italia. Ottone chi?




Dalla Vita Prima di fra Tommaso da Celano (§ 43)


Passando un giorno per quelle contrade con grande pompa e clamore l'imperatore Ottone, che si recava a ricevere «la corona della terra», il santissimo padre non volle neppure uscire dal suo tugurio, che era vicino alla via di transito, né permise che i suoi vi andassero, eccetto uno il quale doveva annunciare con fermezza all'imperatore che quella sua gloria sarebbe durata ben poco.
Siccome il glorioso Santo aveva la sua dimora nell'intimo del cuore, dove preparava una degna abitazione a Dio, il mondo esteriore con il suo strepito non poteva mai distrarlo, né alcuna voce interrompere la grande opera a cui era intento. Si sentiva investito dall'autorità apostolica, e perciò ricusava fermamente di adulare re e principi.


da Cantuale Antonianum

martedì 29 settembre 2009

Menzogna afgana

di Massimo Fini - 28/09/2009


Dobbiamo piantarla con la menzogna che siamo in Afghanistan, oltre che per portarvi una democrazia di cui a quella gente non importa nulla, per combattere il terrorismo internazionale.

Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantomeno internazionali. Non c'erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, algerini, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo conflitto contro l'invasore sovietico gli afgani non si resero responsabili di un solo atto terroristico, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori dal loro Paese, e se dal 2006 si sono decisi a ricorrere anche a quest'arma all'interno di una guerra di guerriglia è perché si trovano di fronte ad un nemico quasi invisibile che usa prevalentemente bombardieri, possibilmente Dardo e Predator, aerei senza pilota ma armati di missili, telecomandati da Nellis nel Nevada. Del resto non si può gabellare una lotta di resistenza che dura da otto anni, con l'evidente appoggio di gran parte della popolazione senza il quale non potrebbe esistere, per terrorismo. Gli stessi Pentagono e Cia, nei loro documenti, chiamano i guerriglieri "insurgents", insorti. Solo il ministro La Russa usa ancora il termine "terroristi".

In Afghanistan all'epoca dell'attacco alle Torri Gemelle c'era Bin Laden. Ma i Talebani, preso il potere, se l'erano trovati in casa e, dopo gli attentati in Kenia e Tanzania, era diventato un problema anche per loro. Tanto che quando Clinton nel 1998, attraverso contatti discreti, propose al Mullah Omar di uccidere lo sceicco saudita il leader talebano si mostrò disponibile. Inviò a Washington il suo braccio destro, Ahmed Wakij, che incontrò il presidente americano due volte, il 28 novembre e il 18 dicembre. Wakij propose due alternative: o gli americani fornivano ai Talebani alcuni missili per colpire lo sceicco oppure sarebbero stati i Talebani a dare agli Usa le coordinate esatte del luogo dove si trova Osama in modo che potessero centrarlo a colpo scuro. Ma nell'un caso e nell'altro la responsabilità dell'attentato dovevano assumersela gli americani perché Bin Laden in Afghanistan aveva costruito ospedali, strade, ponti, godeva di una grande popolarità presso la popolazione e il governo talebano non poteva assumersi la paternità del suo assassinio. Stranamente Clinton declinò l'offerta (Documento del Dipartimento di Stato, agosto 2005).
In ogni caso Bin Laden è scomparso dalla scena da anni. Si dice allora che, Bin Laden o no, l'Afghanistan è tuttora la culla del terrorismo quaedista, cioè arabo. La Cia ha calcolato che fra i circa 50 mila "insurgents" ci sono 386 stranieri. Ma sono uzbeki, ceceni, turchi. Non arabi. E poi che interesse avrebbero i terroristi internazionali a far base in un Paese presidiato da 110 mila soldati Nato, quando potrebbero stare nello Yemen, dove c'è un governo che li protegge, o mimetizzarsi fra la popolazione in Arabia Saudita, in Giordania, in Egitto per prepararvi in tutta tranquillità i loro eventuali attentati? Al Quaeda, ammesso che esista, è una realtà del tutto marginale in Afghanistan. Ma noi la prendiamo a pretesto per continuare ad occupare quel Paese.
Le altre motivazioni con cui cerchiamo di legittimare la nostra presenza sono: riportare la sicurezza e la stabilità nel Paese, la lotta alla corruzione dilagante, alla disoccupazione, alla droga.

È del tutto evidente che la situazione di insicurezza e di instabilità è provocata proprio dalla presenza delle truppe occidentali perché quel popolo orgoglioso e fiero, che ha cacciato inglesi e sovietici, non tollera occupazioni, comunque motivate.

Stabilità e sicurezza ci sono state nei sei anni del governo talebano. E qui bisogna fare un passo indietro altrimenti non si capisce niente né del fenomeno talebano nè di ciò che accade oggi in Afghanistan. Dopo la sconfitta dei sovietici, i leggendari comandanti che li avevano combattuti, gli Ismail Khan, gli Heckmatyar, i Dostum, i Massud, e i loro sottoposti, in lotta per la conquista del potere, si erano trasformati in bande di taglieggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio. La crescita del movimento talebano fu dovuta a questo. I Talebani, appoggiati dalla popolazione che non ne poteva più di quei soprusi, combatterono e sconfissero i "signori della guerra" e li cacciarono dal Paese riportandovi l'ordine e la legge, sia pure un duro ordine e una dura legge, la shariah. Nell'Afghanistan del Mullah Omar, come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto, si poteva viaggiare tranquilli anche di notte. In quell'Afghanistan non c'era disoccupazione perché il Mullah, sia pur con qualche moderata e mirata concessione all'industrializzazione, aveva mantenuto l'economia di sussistenza. Non c'era corruzione per il semplice motivo che i Talebani facevano impiccare i corrotti. Infine dal 2000 non c'era neppure più traffico d'oppio perché il Mullah aveva troncato la coltivazione del papavero (si veda il diagramma pubblicato dal Corriere il 12/6/2006: nel 2001, anno in cui rileva la decisione presa nel 2000, la produzione di oppio crolla quasi a zero, oggi l'Afghanistan produce il 93% dell'eroina).

E allora cosa dovremmo fare? Sbaraccare e "lasciare che gli afgani sbaglino da soli". E invece restiamo. Le ragioni le spiega, senza pudore, Sergio Romano sul Corriere (19/9): gli Stati Uniti devono salvare la faccia, i Paesi alleati mantenere il loro "prestigio internazionale". E così per la nostra bella faccia continuiamo ad ammazzare uomini, donne, bambini afgani a decine, forse a centinaia di migliaia perché dei morti afgani nessuno tiene il conto quasi che non avessero anche loro, come i nostri "ragazzi", padri, madri, spose, figli. Non sono morti uguali ai nostri. Non appartengono alla "cultura superiore".

"Tutti paiono concordare con Bin Laden oggigiorno": solo Obama non capisce che stiamo perdendo l'Afghanistan

Everyone seems to be agreeing with Bin Laden these days

Only Obama, it seems, fails to get the message that we’re losing Afghanistan


Saturday, 19 September 2009
The Indipendent, Robert Fisk

Obama and Osama are at last participating in the same narrative. For the US president's critics – indeed, for many critics of the West's military occupation of Afghanistan – are beginning to speak in the same language as Obama's (and their) greatest enemy.

There is a growing suspicion in America that Obama has been socked into the heart of the Afghan darkness by ex-Bushie Robert Gates – once more the Secretary of Defence – and by journalist-adored General David Petraeus whose military "surges" appear to be as successful as the Battle of the Bulge in stemming the insurgent tide in Afghanistan as well as in Iraq.

No wonder Osama bin Laden decided to address "the American people" this week. "You are waging a hopeless and losing war," he said in his 9/11 eighth anniversary audiotape. "The time has come to liberate yourselves from fear and the ideological terrorism of neoconservatives and the Israeli lobby." There was no more talk of Obama as a "house Negro" although it was his "weakness", bin Laden contended, that prevented him from closing down the wars in Iraq and Afghanistan. In any event, Muslim fighters wold wear down the US-led coalition in Afghanistan "like we exhausted the Soviet Union for 10 years until it collapsed". Funny, that. It's exactly what bin Laden told me personally in Afghanistan – four years before 9/11 and the start of America's 2001 adventure south of the Amu Darya river.

Almost on cue this week came those in North America who agree with Obama – albeit they would never associate themselves with the Evil One, let alone dare question Israel's cheerleading for the Iraqi war. "I do not believe we can build a democratic state in Afghanistan," announces Dianne Feinstein, the California Democrat who chairs the senate intelligence committee. "I believe it will remain a tribal entity." And Nancy Pelosi, the House Speaker, does not believe "there is a great deal of support for sending more troops to Afghanistan".

Colin Kenny, chair of Canada's senate committee on national security and defence, said this week that "what we hoped to accomplish in Afghanistan has proved to be impossible. We are hurtling towards a Vietnam ending".

Close your eyes and pretend those last words came from the al-Qa'ida cave. Not difficult to believe, is it? Only Obama, it seems, fails to get the message. Afghanistan remains for him the "war of necessity". Send yet more troops, his generals plead. And we are supposed to follow the logic of this nonsense. The Taliban lost in 2001. Then they started winning again. Then we had to preserve Afghan democracy. Then our soldiers had to protect – and die – for a second round of democratic elections. Then they protected – and died – for fraudulent elections. Afghanistan is not Vietnam, Obama assures us. And then the good old German army calls up an air strike – and zaps yet more Afghan civilians.

It is instructive to turn at this moment to the Canadian army, which has in Afghanistan fewer troops than the Brits but who have suffered just as ferociously; their 130th soldier was killed near Kandahar this week. Every three months, the Canadian authorities publish a scorecard on their military "progress" in Afghanistan – a document that is infinitely more honest and detailed than anything put out by the Pentagon or the Ministry of Defence – which proves beyond peradventure (as Enoch Powell would have said) that this is Mission Impossible or, as Toronto's National Post put it in an admirable headline three days' ago, "Operation Sleepwalk". The latest report, revealed this week, proves that Kandahar province is becoming more violent, less stable and less secure – and attacks across the country more frequent – than at any time since the fall of the Taliban in 2001. There was an "exceptionally high" frequency of attacks this spring compared with 2008.

There was a 108 per cent increase in roadside bombs. Afghans are reporting that they are less satisfied with education and employment levels, primarily because of poor or non-existent security. Canada is now concentrating only on the security of Kandahar city, abandoning any real attempt to control the province.

Canada's army will be leaving Afghanistan in 2011, but so far only five of the 50 schools in its school-building project have been completed. Just 28 more are "under construction". But of Kandahar province's existing 364 schools, 180 have been forced to close. Of progress in "democratic governance" in Kandahar, the Canadian report states that the capacity of the Afghan government is "chronically weak and undermined by widespread corruption". Of "reconciliation" – whatever that means these days – "the onset of the summer fighting season and the concentration of politicians and activists for the August elections discouraged expectations of noteworthy initiatives...".

Even the primary aim of polio eradication – Ottawa's most favoured civilian project in Afghanistan – has defeated the Canadian International Development Agency, although this admission is cloaked in truly Blair-like (or Brown-like) mendacity. As the Toronto Star revealed in a serious bit of investigative journalism this week, the aim to "eradicate" polio with the help of UN and World Health Organisation money has been quietly changed to the "prevention of transmission" of polio. Instead of measuring the number of children "immunised" against polio, the target was altered to refer only to the number of children "vaccinated". But of course, children have to be vaccinated several times before they are actually immune.

And what do America's Republican hawks – the subject of bin Laden's latest sermon – now say about the Afghan catastrophe? "More troops will not guarantee success in Afghanistan," failed Republican contender and ex-Vietnam vet John McCain told us this week. "But a failure to send them will be a guarantee of failure." How Osama must have chuckled as this preposterous announcement echoed around al-Qa'ida's dark cave.

venerdì 25 settembre 2009

Mappa militari Usa nel mondo

Si può trovare qui, su Mother Jones.

Perché ho lanciato quella scarpa

di Muntazer Al Zaidi - 23/09/2009

da Come Don Chisciotte

“Non sono un eroe. Ho solo agito come un iracheno che ha visto il dolore e il massacro di troppi innocenti”.

Io sono libero. Ma il mio paese è ancora un prigioniero di guerra. Si è parlato molto di cosa ho fatto e di chi sono io, se si sia trattato di un atto eroico e se io sia un eroe, come per rendere quell’atto un simbolo. Ma la mia risposta è semplice: ciò che mi ha spinto a quel gesto è l’ingiustizia che si è abbattuta sul mio popolo, nonché il modo in cui l’occupazione ha umiliato la mia patria schiacciandola sotto il suo stivale.

Durante gli ultimi anni, più di un milione di martiri sono caduti sotto i proiettili dell’occupazione, ed oggi l’Iraq conta più di 5 milioni di orfani, un milione di vedove e centinaia di migliaia di mutilati. Molti milioni sono senza tetto, sia dentro che fuori dall’Iraq.

Noi eravamo una nazione nella quale l’arabo divideva il pane con il turcomanno, il curdo, l’assiro, il sabeano e lo yazid. Gli sciiti pregavano assieme ai sunniti. I musulmani festeggiavano assieme ai cristiani la nascita di Cristo. E ciò nonostante il fatto che condividessimo la fame, essendo sotto sanzioni per più di un decennio.

La nostra pazienza e solidarietà non ci ha fatto dimenticare l’oppressione. L’invasione, tuttavia, ha diviso anche i fratelli e i vicini di casa. Ha trasformato le nostre case in camere da funerale.

Non sono un eroe. Ma ho un punto di vista. Ho una posizione precisa. Mi ha umiliato vedere il mio paese umiliato; e vedere la mia Baghdad bruciare, la mia gente morire. Migliaia di immagini tragiche rimangono nella mia testa, spingendomi sul cammino del conflitto. Lo scandalo di Abu Ghraib. Il massacro di Falluja, Najaf, Haditha, Sadr City, Bassora, Diyala, Mosul, Tal Afar, ed ogni angolo di territorio martoriato. Ho viaggiato attraverso il mio paese in fiamme e ho visto con i miei stessi occhi il dolore delle vittime, ho sentito con le mie stesse orecchie le grida degli orfani e le vedove. Una sensazione di vergogna mi ha perseguitato come una maledizione, perché ero impotente di fronte a tutto ciò.

Non appena ho terminato i miei impegni professionali nel documentare le tragedie quotidiane, mentre sgomberavo le rovine di ciò che rimaneva delle case irachene, mentre lavavo il sangue che macchiava i miei vestiti, serravo i denti e ripromettevo di vendicare le nostre vittime.

L’occasione si è presentata, ed io l’ho sfruttata.

L’ho fatto per lealtà nei confronti di ogni goccia di sangue innocente versato con l’occupazione o a causa di essa, per ogni grido delle madri in lutto, ogni lamento degli orfani, la sofferenza delle donne violate, le lacrime dei bambini.

Io dico a coloro che mi rimproverano per il mio gesto: sapete in quante case distrutte è entrata la scarpa che ho lanciato? Quante volte ha calpestato il sangue delle vittime innocenti? Forse quella stessa scarpa era la risposta più appropriata quando tutti i valori sono stati violati.

Quando ho tirato quella scarpa in faccia al criminale George Bush, volevo esprimere il mio rifiuto nei confronti delle sue menzogne, per la sua occupazione del mio paese, il mio rifiuto per il suo massacro della mia gente. Il mio rifiuto per il suo saccheggio delle ricchezze del mio paese e la distruzione delle sue infrastrutture. E l’espulsione dei suoi figli in una diaspora senza precedenti.

Se ho fatto un torto al giornalismo senza averne intenzione, a causa dell’imbarazzo che ho creato all’interno dell’establishment, mi scuso. Ciò che volevo fare era esprimere con coscienza viva i sentimenti di un cittadino che vede il suo paese profanato quotidianamente. La professionalità, invocata da alcuni sotto gli auspici dell’occupazione, non dovrebbe avere una voce più alta della voce del patriottismo. Ma se il patriottismo ha bisogno di parlare, il professionista dovrebbe allearsi con lui.

Non ho fatto questo gesto affinché il mio nome possa entrare nella storia o per guadagni materiali. Tutto ciò che volevo fare era difendere il mio paese.

Titolo originale: "Why I Threw the Shoe" (guardian.co.uk)

Obama ripudia la difesa missilistica, e un secolo di politica estera?

A very foreign policy

In cancelling the European missile shield, Obama is overturning a century of foreign policy based on a one-hour lecture by a Victorian geographer

guardian.co.uk, Thursday 24 September 2009
Tistram Hunt

Barack Obama's decision to cancel the missile defence programme by closing radar bases in eastern Europe has provoked predictable derision on the Republican right. From Senator John McCain down, it has accused the president of naivety, weakness and, worst of all, ceding the Eurasian "heartland" to Russia. But while they might position themselves as modern, strategic realists, today's neocons are in fact bewitched by the foreign policy prescriptions of a late Victorian imperialist.

In 1904, the geographer Sir Halford J Mackinder rose, in a sparsely attended lecture theatre at the Royal Geographical Society, to deliver a talk entitled The Geographical Pivot of History. In one short hour, he set the perimeters for 20th-century geopolitics. The "Columbian age" of colonial expansion was at an end, he suggested, and a world criss-crossed by steam, telegram and train had become "a closed political system". As a result, "every explosion of social forces, instead of being dissipated in a surrounding circuit of unknown space and barbaric chaos, will be sharply re-echoed from the far side of the globe, and weak elements in the political and economic organism of the world will be shattered in consequence."Global diplomacy was now a zero-sum game, with every national victory won through the crushing of a competitor. As such, all talk of ethics and morality in foreign policy was for the birds. What mattered was power and the taking and holding of political space. The most important landmass – the "geographical pivot of history" – was central Eurasia, stretching from the edges of Europe across the steppes, desert and grassland of Russia until the Sea of Japan. And the key to controlling this heartland was to gain supremacy over eastern Europe: "Who rules East Europe commands the Heartland/Who rules the Heartland commands the World-Island/Who rules the World-Island commands the World."

So, in the aftermath of the first world war, Mackinder urged a buffer zone of friendly states – Poland, Czechoslovakia and Hungary – to prevent Germany and Russia joining forces. A single geopolitical entity in charge of the Ukrainian wheatfields, Ural riches and Siberia would pose a devastating threat to British imperial interests. This was very much Hitler's thinking – introduced to Mackinder's geopolitics by Rudolf Hess – when he established the Nazi-Soviet pact.

Then, as the Allies' victory looked assured and Stalin started to make a bid for hegemony, the elderly Mackinder warned how "the territory of the USSR [was] equivalent to the heartland" and that "if the Soviet Union emerges from this war as conqueror of Germany, she must rank as the greatest land power on the globe". Here lay the seeds of US "containment" policy. When the architect of American postwar anti-Soviet strategy, diplomat George Kennan, argued that "our problem is to prevent the gathering together of the military-industrial potential of the entire Eurasian landmass under a single power threatening the interests of the insular and mainland portions of the globe", it was pure Mackinder.

Since then, Mackinder's thinking has found a secure place in the Pentagon. Under the patronage of Henry Kissinger and Zbiginiew Brzezinski, an appreciation of geographical dominance was obvious. The legacy lightened under the multilateralism and detente of Bill Clinton, but returned with red-blooded vigour under the neoconservative Project for the New American Century. In the post-cold war era, the neocons believed the US should seek total hegemony over the World Island without the interference of do-gooding idealists at the United Nations – which provides some insight into the war in Iraq.

Even now, much of that group-think remains evident in Washington. The latest issue of Foreign Policy magazine asserts that "the US projection of power into Afghanistan and Iraq, and today's tensions with Russia over the political fate of central Asia and the Caucasus, have only bolstered Mackinder's thesis". In a new essay for opendemocracy.net, Prince Hassan of Jordan has similarly spoken of how "the struggle for control of the 'energy ellipse' from Eurasia to the Straits of Hormuz" has revealed the resonance of Mackinder's thinking "for the political power plays of today".

For it is in the resource-rich former Soviet republics of Kyrgyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan and Belarus that the battle for the heartland is being played out most obviously. Moscow is working hard to retain its zone of privileged interest, while America is using a string of military bases, oil contracts and development aid to boost its geopolitical influence.

So the decision to cancel the antiballistic missile shield and risk ceding the eastern heartland to the Russians is, from the Mackinder perspective, an act of monstrous strategic incompetence. Then again, it might just be another example of Obama's ability to think beyond the belligerent philosophy of the Pentagon and the prescriptions of a Victorian imperialist which so rarely offered a fair peace.

mercoledì 23 settembre 2009

Basta dollaro, negli scambi internazionali Teheran userà l’euro

da AsiaNews

Annunciata da anni, la decisione è contenuta in un decreto del presidente Ahmadinejad e riguarda in particolare gli scambi petroliferi. Con oltre quattro milioni di barili al giorno l’Iran è il quarto produttore mondiale di “oro nero”.

L’Iran, quarto produttore mondiale di petrolio, ha deciso di sostituire negli scambi internazionale il dollaro con l’euro. Lo stabilisce un decreto del presidente Mahmoud Ahmadiejad.
La decisione, precisano le agenzie iraniane, è stata presa sentiti gli amministratori delle riserve estere del Paese. La decisione riguarda in particolare proprio le transazioni aventi ad oggetto il petrolio – l’Iran ne produce oltre quattro milioni di barili al giorno - che rappresentano l’80% del totale delle entrate di valuta estera e circa il 50% delle entrate del bilancio generale dello Stato.
In realtà, la volontà di utilizzare l’euro e non il dollaro per le transazioni internazionali è stata più volte proclamata dalla Repubblica islamica negli anni scorsi. Teheran aveva anche proposto agli altri Paesi dell’Opec di abbandonare “l’affondante” dollaro a favore del “più credibile” euro. Ora il decreto presidenziale sembra aver deciso il passaggio.
In seguito al cambiamento, è stato annunciato che il tasso di interesse previsto dalla Riserva degli scambi esteri sarà ridotto dal 12 al 5%:

lunedì 21 settembre 2009

Esselunga

“Il sogno del vero uomo è la cassiera del supermercato con la ricrescita. Ma bisogna sapersi accontentare e farsi piacere ciò che passa il convento: la laureata in filosofia, la studentessa di scienze della comunicazione, la stagista che fa conservazione dei beni culturali… Mentre il cervello della cassiera è passato attraverso un solo schiacciapatate, la televisione, il loro subisce una macinatura ulteriore: lo studio coatto. Sono psichicamente così snervate che a volte sfogliano addirittura Repubblica. Ma sono le ragazze della nostra vita e un’altra vita non esiste”.

(Camillo Langone, da Da Il Foglio del 26 novembre 2005)

il mondo di Videocracy non è arrivato dal nulla

Siamo gli ultimi. Quasi quelli che vengono dopo gli ultimi. Subito dopo di noi ha inizio un'altra epoca, un altro mondo, il mondo di chi non crede più a niente, di chi se ne vanta e se ne inorgoglisce. Subito dopo di noi ha inizio il mondo che abbiamo definito, che non cesseremo mai di definire, il mondo moderno. Il mondo degli intelligenti, dei progressisti, di quelli che la sanno più lunga, di quelli ai quali non la si dà a bere. Il mondo di chi non ha più niente da imparare. Il mondo di chi fa il furbo. Il mondo di chi non si lascia abbindolare, di chi non è imbecille. Come noi. Cioè, il mondo di chi non crede più a niente, neppure all'ateismo, di chi non si prodiga per nulla e non si sacrifica per nulla.


CHARLES PÉGUY, 1972.
(da La nostra gioventù - Il denaro)

Contro la "spiritualità new-age", dal 33 d.C.




Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina,
ma, per il prurito di udire qualcosa di nuovo,
gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,
rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.
2 Timoteo 4,4-5

giovedì 17 settembre 2009

I Talebani hanno il diritto di poter sbagliare da soli


di Massimo Fini - 29/07/2009


Non è certo il momento di ritirare le truppe dall’Afghanistan perchè un nostro soldato è stato ucciso. Ma è da tempo che avremmo dovuto chiederci seriamente che cosa ci stiamo a fare in quel Paese lontano cinquemila chilometri da noi, ad ammazzar gente che non ci ha fatto nulla di male e, sia pur in proporzione di uno a cento data la sperequazione delle forze, a farci ammazzare.
Le motivazioni ufficiali, ribadite anche di recente dal ministro Frattini, sono: 1) combattere il terrorismo internazionale; 2) garantire la sicurezza all’interno di quel Paese; 3) aiutarne lo sviluppo.
1) Gli afgani non sono terroristi, tantomeno internazionali. Non c’erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre. C’erano arabai sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, algerini, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo confilitto contro l’invasore sovietico, gli afgani non si resero responsabili di un solo atto di terrorismo e anche adesso che la guerriglia si trova di fronte un esercito praticamente invisibile, che fa uso a tappeto di bombardieri, ed è quindi costretta a cercare forme alternative di lotta, gli atti di tipo terroristico sono relativamente pochi e comunque sempre mirati ad obiettivi militari o politici. Del resto non si può gabellare una lotta di resistenza che dura da otto anni, con l’evidente appoggio della popolazione senza il quale non potrebbe esistere, per terrorismo. Lo stesso Karzai, che è un fantoccio degli americani, è stato costretto ad ammettere: "Bisogna trattare con i Talebani perchè sono parte di questo Paese".
Ai Talebani, come gli altri afgani che li appoggiano, interessa solo il proprio Paese, non hanno alcuna intenzione di fare la "guerra santa" all’Occidente. Dice: ma l’Afghanistan è tuttora la culla del terrorismo quaedista, cioè arabo. Ma basta un semplice ragionamento per escluderlo. Che interesse avrebbero i terroristi internazionali a far base in un Paese dove stazionano 80mila soldati Nato, quando potrebbero benissimo stare nello Yemen, che li protegge, o mimetizzarsi fra le popolazioni in Arabia Saudita, in Giordania, in Egitto per prepararvi in tutta tranquillità i loro eventuali attentati?
2) È del tutto evidente che la situazione di insicurezza e di instabilità dell’Afghanistan è frutto proprio della presenza di quelle truppe straniere che dovrebbero portarvi l’ordine e invece provocano il disordine perchè quel popolo orgoglioso, che ha cacciato inglesi e sovietici, non tollera occupazioni, comunque motivate.
3) È tutto da dimostrare che gli afgani vogliano il nostro tipo di sviluppo, secondo le nostre leggi, le nostre istituzioni, i nostri usi, i nostri costumi, violentandone i loro e quell’equilibrio agro-pastorale su cui hanno vissuto per millenni.
Adesso le "Vispe Terese" dell’Occidente scoprono che gli americani usando un loro alleato, l’uzbeko Dostum, "signore della guerra", uno dei peggiori pendagli da forca della regione, hanno ucciso duemila prigionieri talebani e poi li hanno gettati nelle fosse comuni. Ha scritto Gino Rampoldi su La Repubblica: "Se siamo onesti dobbiamo ammettere che queste cose le abbiamo sempre sapute".
I Dostum, gli Heckmatyer, gli Ismail Khan, "signori della guerra" che taglieggiavano, rubavano, ammazzavano, stupravano a loro piacimento e arbibrio, i Talebani li avevano cacciati dall’Afghanistan e avevano ristabilito l’ordine e la legge nel Paese, sia pur un duro ordine e una dura legge, la Shariah, peraltro consonante con i sentimenti della maggioranza di quelle popolazioni. Inoltre nel 2000, l’anno prima dell’aggressione americana, il Mullah Omar aveva stroncato il traffico dell’oppio (oggi l’Afghanistan ne produce il 93% del totale mondiale).
E allora? Il generale russo che comandò le truppe sovietiche in Afghanistan ha detto: "Le truppe Nato si devono ritirare. Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli". Ed è paradossale ed avvilente che le parole più ragionevoli sull’Afghanistan le abbia dette un generale ex comunista.

mercoledì 16 settembre 2009

quando ronde, telecamere e ordinanze varie le facevano gli altri




sempre detto io, che la lega è in fondo un partito di sinistra vecchia maniera.

martedì 15 settembre 2009

one like putin...

attendiamo video simili anche sui politici nostrani..."one like mastella" anyone?

mercoledì 2 settembre 2009

Una linea Avveniristica..

da liberoarbitrio blog


Non è che alla CEI e alla redazione di Avvenire si sono svegliati l’altra mattina stropicciandosi gli occhi e apprendendo con sorpresa che Berlusconi è un trombeur de femmes. Semplicemente, la situazione politica attuale ci mette di fronte ad un triste dilemma: è meglio un politico puttaniere che sulla famiglia legifera in modo quantomeno accettabile, o un politico fedele e morigerato che legifera in modo deleterio per la società? Certo, l’ideale sarebbe un leader politico che riunisse l’una e l’altra qualità. Ma in questo momento non ce l’abbiamo, ed anzi è lecito sospettare che di politici santi non ne vedremo mai. In altri tempi si è pensato di applicare la ricetta di Platone (cioè, se i governanti non riescono a essere buoni, allora siano i buoni a farsi governanti) e affidare alla Chiesa il potere temporale, ma non ha funzionato e non poteva funzionare: come dicono due assiomi Bene Gesserit, il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto ed inoltre il potere non soltanto corrompe, ma attira i corruttibili. A fare politici i chierici non si migliora la politica, si peggiorano i chierici.

E allora che si fa? Alla CEI e ad Avvenire credono che sugli argomenti famiglia e bioetica questo governo sia preferibile al precedente (su altri argomenti è da discutere), e si regolano di conseguenza. Un conto è il Berlusconi uomo peccatore, a cui vanno tirate le orecchie come a chiunque altro e che non ha diritto a sconti in confessionale, un altro è il Berlusconi politico a cui ci si adatta se al momento non c’è di meglio.

Mi sembra un modo di ragionare laico. Forse è per questo che i giornali laicisti non lo capiscono.

lunedì 24 agosto 2009

Perché Zapatero è così attratto dai diritti dello scimpanzé

Il mito dei preadamitici spiega che la maggiore tragedia dell’uomo è che continuerà sempre a essere soltanto uomo

da ilFoglio.it

Il fatto che il governo spagnolo abbia recentemente stabilito che anche gli scimpanzé devono godere di alcuni diritti umani apre una questione talmente complicata che forse si potrebbe iniziare a illustrare partendo da un episodio, purtroppo solo romanzesco, che si trova in un libro funambolico di Raymond Queneau, “I fiori blu”. Uno dei protagonisti è il Duca D’Auge, terribile signorotto medievale, con un’idea fissa: rompere le scatole ai preti andando a dipingere e inventando, per la prima volta nella storia dell’umanità, dei disegni rupestri per provare una volta per tutte, in barba alla Genesi, l’esistenza degli uomini preadamiti. “I Preadamiti – dice il Duca D’Auge all’abate Riphinte – avevano la purezza dei bambini, e naturalmente disegnavano come bambini. (…) Le persone che hanno fatto questi disegni, queste pitture, queste persone hanno vissuto prima del peccato originale, erano come quei fanciulli di cui Gesù parla nel Vangelo. Sono i Preadamiti, allora, gli autori di questi disegni, prova della loro esistenza. Vivevano in queste caverne per trovar riparo dagli sconvolgimenti che agitavano la terra, allor sì giovane”. Un genio del male. Il Duca D’Auge riscrive la storia per un suo capriccio polemico, per togliersi uno sfizio. Bene.

Ma tutto questo cosa c’entra con la decisione di Zapatero? Se si legge un articolo di William Saletan uscito su Slate.com il 15 luglio e intitolato “The Paradox of Discrimination” la questione, come si diceva, inizia a chiarirsi. Il fatto che gli scimpanzé vengano assimilati agli esseri umani riposa sulla convinzione che animali e esseri umani siano privi di quella che tradizionalmente veniva chiamata anima. Una forma di uguaglianza al ribasso. Scrive Saletan: “Sappiamo che c’è qualcosa di meraviglioso e di unico nel potere, nella ricchezza e nella sottigliezza della mente umana. Ma per noi, l’anima non spiega queste meraviglie. Le descrive semplicemente. Questo è il motivo per cui la distruzione degli embrioni umani non ci tormenta allo stesso modo in cui tormenta i movimenti pro life. Non crediamo nell’arrivo dell’anima al momento del concepimento. Crediamo invece nel progressivo sviluppo delle capacità mentali. Ma questo ci mette in una posizione difficile. Ci definiamo egalitari, tuttavia neghiamo l’uguaglianza degli esseri umani concepiti. Crediamo che una donna meriti più rispetto di un feto. Che un feto di ventisei settimane meriti più rispetto di un feto di dodici. Che un feto di dodici debba essere più considerato di uno zigote. Discriminiamo secondo le capacità. Questo è il motivo per cui i diritti degli scimpanzé ci attraggono. Non è un’affermazione di uguaglianza tra tutti gli animali. Ma il fatto che gli scimpanzé ci assomigliano molto di più che gli insetti”. Ci siamo.

Il Duca D’Auge aveva inventato l’esistenza dei preadamiti per dispetto, per il gusto di togliere all’uomo un privilegio che il mito della Genesi, nel bene e nel male, gli assegnava. La sua idea, facendo finta che non sia romanzesca, ha prodotto però l’esatto contrario di quello che si prefigurava ed è ciò che Saletan ha descritto nel suo articolo: la proclamata uguaglianza tra uomini e animali genera paradossi che affermano l’esatto contrario delle premesse: ci sono uomini più uguali di altri uomini e ci sono animali più uguali di altri animali rispetto all’uomo. Non è insomma un caso, tanto per chiudere il cerchio ancora con il Duca D’Auge, che alla voce “Adamo” della sua “Nuova Enciclopedia”, Alberto Savinio abbia scritto: “Le rivoluzioni della scienza si svolgono senza recar disturbo ai miti, (…) se la rivoluzione darwiniana non vieta alla massima parte degli uomini di considerare l’uomo come centro dell’universo. Come potrebbe essere altrimenti? Le scoperte che l’uomo fa, le sempre nuove cognizioni che egli acquista non fanno anche sì che l’uomo cessi di essere uomo. E allora? La maggiore tragedia dell’uomo è questa, che qualunque cosa egli riesca a pensare, continuerà sempre a essere uomo e soltanto uomo”.

La scimmia col gilet è una caricatura. E sfocia nell’eugenetica

Sono stato per alcuni anni animalista, per semplici ragioni di pietà. Trovavo e trovo orribile che alcune povere bestie siano sottoposte a esperimenti strazianti, che hanno una discutibile utilità medica e servono soprattutto a produrre pubblicazioni per la carriera degli sperimentatori. Ciò mi pareva particolarmente infame nei confronti delle nostre sorelle scimmie, benché non abbia mai assistito ad alcun esperimento che le coinvolgesse. Ma gli ululati dei cani provenienti dallo stabulario dell’Istituto di Sanità mi sono rimasti nell’anima dopo cinquant’anni.

Mi sono allontanato dall’animalismo quando ho cominciato a sentir parlare dei “diritti” degli animali, di una sorta di omologazione giuridica di uomini e bestie, da cui l’uomo emergeva come un animale con qualche diritto in più, conquistato con la prepotenza. Ho sentito parlare e ho letto di qualcosa come un diritto di voto esteso agli scimpanzé, e, dal lato opposto, ai robot. La pietà, e sino l’amore, nei confronti degli animali, è sentimento rispettabile ed è una via per avvicinarci alla fratellanza universale e a Dio, come ci ha insegnato san Francesco. Un cane può essere modello di affetto e di fedeltà. Dare a questi sentimenti una sanzione burocratica e legislativa offende il nostro diritto e ridicolizza la scimmia. La scimmia col cilindro e col gilet è stata per qualche tempo la caricatura del darwinismo.

Un mese fa la commissione ambientale delle Cortes spagnole ha preso in carica un progetto di liberazione animalista, intitolato alle grandi scimmie (Great Ape Project). Il particolare riguardo riservato agli scimmioni ha certamente origine dalla nozione darwiniana che da essi deriviamo attraverso il processo evolutivo, che di essi siamo eredi e non di un mitico Adamo. Benché quella nozione sia stata smentita definitivamente, se non altro perché l’uomo è comparso sulla terra milioni di anni prima degli scimmioni, essa è rimasta nel nostro subconscio e nella nostra subcultura. Quello che preoccupa nell’accesso delle scimmie al nostro diritto è l’invasione della legalità zoologica nella nostra filosofia e nel nostro diritto. Scrisse Darwin nei suoi appunti: “Origine dell’uomo ora dimostrata. La metafisica deve fiorire. Chi comprendesse il babbuino farebbe per la metafisica più di quanto abbia fatto Locke.” E la metafisica del babbuino ci insegna che (è sempre Darwin) “l’origine della nostra specie è la causa delle nostre passioni malvagie. Il diavolo sotto forma di babbuino è nostro nonno”.

Il rischio che l’adozione del Great Ape Projet fa intravedere non è tanto quello di vedere una scimmia seduta in Parlamento. E’ quello di vedere insinuarsi nelle nostre leggi la metafisica del babbuino. Quella metafisica, promossa dal cugino di Darwin, Francis Galton, conosce una sola forma di elevazione e miglioramento, l’eugenetica, cioè l’eliminazione dei difetti e dei difettosi. “La nostra razza dovrà liberarsi del marchio ereditario dovuto alla sua primitiva barbarie, – scrisse Galton – prima che i nostri discendenti possano raggiungere la posizione di membri liberi di una società intelligente”.
La giurisdizione zoologica, quanto meno quella delle Grandi Scimmie, tenderà ad affacciarsi nel Corpus Juris Civilis di Giustiniano, via via dissolvendo i concetti di colpa e di responsabilità, e sostituendoli con quelli di difetto genetico e di residuo animalesco.
Delitto e castigo diverranno pregiudizi superati dalla lombrosiana genetica della criminalità, e la Giustizia sarà sostituita da qualcosa come una Classificazione naturalistica delle tendenze congenite, che avrà stabilito il nostro debito prima dell’esperienza della vita.

di Giuseppe Sermonti

mercoledì 22 luglio 2009

New York Times: Cattolicesimo come antidoto al Turbocapitalismo

MUNICH — The collapse of Communism in the East two decades ago did not provide much of an opening for the Catholic Church to influence economic policy, but perhaps the near-collapse of Western capitalism will. Two German authors — one named Marx, the other his patron in Rome — are certainly hoping so.


The first is Reinhard Marx, archbishop of Munich and Freising, who has written a best seller in Germany that he cheekily titled “Das Kapital” (and in which he addresses that other Marx — Karl — as “dear namesake”). The second is Pope Benedict XVI, who last week published his first papal encyclical on economic and social matters. It has a more gentle title, “Charity in Truth,” but is based on the same essential line of thinking. Indeed, Archbishop Marx had a hand in advising the pope on it, and a reading of the archbishop’s book helps explain the intellectual context in which the encyclical was composed.

The message in both is that global capitalism has raced off the moral rails and that Roman Catholic teachings can help set Western economics right by encouraging them to focus more on justice for the weak and closely regulating the market.

Unlike the 19th-century Marx, who thought organized religion was a trick played on the impoverished in order to control them, Archbishop Marx and other Catholics yearn for reform, not class warfare. In that, they are following a long and fundamental line of church teaching. What is different now is that some of them see this economic crisis as a moment when the church’s economic thinking just may attract serious attention.

Archbishop Marx has already drawn a following in Germany by arguing that capitalism needs, in a grave way, the ethical underpinnings of Catholicism. The alternative, he argues, is that the post-crisis world will fall back into furious turbo-capitalism, or, alternatively, experience a renaissance of Marxist ideology based on atheism and class divisions.

“There is no way back into an old world,” Archbishop Marx said in a recent interview, before the encyclical was issued. “We have to affirm this world, but critically.”

Catholic voices have long had influence on the debate in the West about social justice, but never as much as the church would have wished. That reflected the enduring challenge of devising alternative policies, rather than simply criticizing secular authorities.

Pope John Paul II, a Pole with an intuitive feel for Communism’s injustices, was an important voice in bringing that system down. But he had to watch in the 1990s as Eastern Europe embraced Communism’s polar opposite — a rather pure form of secular capitalism, instead of any Catholic-influenced middle way.

“John Paul II was often very clear what he was against: He was against unbridled capitalism and the kind of socialism of the Soviet sphere,” said John Allen, the National Catholic Reporter Vatican watcher. “What he was for was less clear.”

Now Archbishop Marx, who at 55 occupies an ecclesiastical perch once held by Benedict, is trying to wriggle out of that intellectual straitjacket.

With his talent for turning a provocative phrase, he has more in common stylistically with the evangelist St. Paul or the philosophes, who popularized Enlightenment thought, than with Karl, who ground out his dense texts from exile in London. After beginning his book puckishly by addressing Karl Marx personally, the archbishop races through 200 years of Western economic history in a way that pays tribute to Karl’s core analytical conclusion — that capitalism embodies contradictions that threaten the system itself.

But he also makes it clear he is no Communist. He admires Wilhelm Emmanuel von Ketteler, a 19th-century writer who put Catholic theory into practice as a member of Germany’s first national Parliament in 1848, and later became a bishop and a fervent critic of Karl Marx.

The gregarious Archbishop Marx has cut a profile in the German business community for his willingness to walk into a roomful of executives and raise the roof. (“Are you marionettes?” he once asked a manager who protested that markets sometimes dictate unethical actions.)

In his book, which was published last fall, he offers a vision of a world governed by cooperation among nations, with a vibrant welfare state as the core of a market economy that reflects the love-thy-neighbor imperatives of Catholic social thought.

On the first point, Archbishop Marx is in good, cosmopolitan company; many officials, from New York to London to Beijing, are calling these days for a world in greater regulatory harmony, though the specifics may be hard to agree upon. He sounds considerably more German when exhorting the world to create, or recast, the welfare state. People need the welfare state before they “can give themselves over to the very strenuous and sometimes very risky games of the marketeconomy,” Archbishop Marx said. The burdens of aging, illness or unemployment “need to be borne collectively,” he added.

In support of his argument, the archbishop calls for a “global social market economy,” based on a concept familiar to Germans as the model for their own postwar system.

Of course, the archbishop says he realizes that a European’s ideal of welfare states and border-straddling institutions might not have universal appeal. At the end of his book, he quotes Jean-Claude Juncker, the prime minister of Luxembourg, who has said, “I approve of the notion that Europe sees itself, unpretentiously, as a model for the world, but the consequence of that is that we would have to constantly change that model because we are not the world.”

Neither, he might have added, is the Roman Catholic church.

martedì 14 luglio 2009

Qualcuno sa cogliere le opportunità nella "crisi"

Utili record per Goldman Sachs: 3,44 miliardi di dollari

da ilsole24ore.com

Goldman Sachs ha chiuso il secondo trimestre con un utile netto di 3,44 miliardi di dollari, pari a 4,93 dollari per azione contro i 3,65 previsti dagli analisti. Si tratta dell'utile trimestrale più alto nella storia della banca d'affari newyorchese. I ricavi della banca d'affari statunitense si sono attestati a 13,76 miliardi di dollari.

sabato 11 luglio 2009

Vanità di vanità

venerdì 10 luglio 2009

Aggiornamento: I Bond sequestrati a Chiasso: probabilmente veri, ma non importa..

da Crisis.blogspot


I Bond sequestrati a Chiasso: probabilmente veri ma non importa. Ecco perchè.


Breve riassunto:i bond sono probabilmente veri.

Se anche fossero falsi segnalerebbero la stessa cosa, ovvero che il dollaro è agli sgoccioli e i topoloni stanno filandosela a gambe levate.

Siccome il risparmio usa non esiste piu' e quello internazionale scappa a gambe levate il dollaro non ha chances e Weimar si avvicina a grandi passi.



Non so se avete notato, ma questa storia, affascinante ed oscura, è stata completamente trascurata dai media mondiali e, negli ultimi giorni, ANCHE da coloro che più si erano dati da fare, nel mese passato dal sequestro, per cercare di far luce sulla vicenda.

Coloro che avevano per primi approfondito la notizia, ovvero, a parte (im)modestamente questo blog, il sito Asia News , gestito da Padre Cervellera e il direttore, alquanto bislacco, di una radio On line statunitense, Hal Turner tacciono.

Quest'ultimo per il valido motivo di essere stato arrestato, poche ore dopo aver fornito dati ed immagini dei famosi bond che potevano essere a disposizione solo dei servizi segreti americani, ovviamente con accuse che non hanno niente a che vedere con i bond.

Il tipo, in effetti, pare che sia un "suprematista bianco" ovvero un esponente di una corrente di pensiero alquanto affine a quella dei simpatici signori del Ku Klux Klan.

Certo è che lo è DA SEMPRE, certo è che deve aver avuto OTTIMI agganci dentro l'amministrazione USA per avere accesso a quei documenti e certo è che il suo arresto NON è sospetto: è assolutamente evidente, basta vedere le accuse, che è del tutto pretestuoso e che le cause, come del resto ha detto lo stesso Turner , sono proprio da ricercarsi nel suo servizio sui bonds.

Anche Padre Cervellera, che per primo aveva fornito i nomi dei due giapponesi ed i loro legami con la banca centrale del loro paese, tace, all'improvviso, da qualche giorno, dopo aver ribadito, motivatamente, che, secondo lui, i bond sono autentici.

Certo: forse mancano novità, notizie interessanti, nuovi risvolti.

Ed invece no: non è così. Il Giornale, unico Media di rilievo che sia stato finora su questa notizia riferisce che i due "spalloni" nipponici avevano un referente italiano e che questo rerente italiano ha una faccia, un nome ed una attività: si tratta del Sig. Alessandro Santi, "milanese, 72 anni, una vita spesa nelle spedizioni internazionali e negli affari di dogana, già presidente del Consorzio internazionale trasporti di Roma, socio e poi proprietario unico della Interprogetti di Milano".

Il suo nome è emerso dai documenti che i due avevano con se al momento dell'arresto.

Non è dato sapere altro ma parrebbe evidente che i due avessero in qualche modo cercato di pianificare il passaggio della loro famosa valigetta usufruendo dei consigli, dei buoni uffici e della competenza del Signor Santi, per arrivare incolumi a destinazione, quale che fosse.

Ancora una volta, questo è un comportamento anomalo per due truffatori di bassa lega: non ci si riferisce ad uno spedizioniere di alto rango per dei bond farlocchi, ma ci si limita a passare il confine attraverso un pascolo poco sorvegliato.

Parrebbe ragionevole che i due abbiano chiesto consiglio ed assistenza e che il Sig. Santi possa avergli spiegato le complicate pieghe della legislazione italica ed il rischio di una ingente multa/tassa che pendeva sopra il loro capo.

I due, evidentemente messi alle strette da qualche circostanza che non conosciamo, hanno tentato il tutto per tutto e gli è andata buca.

Sinceramente non darei neanche molto per scontato che siano vivi.

Pare infatti evidente che la stangata, veri o falsi i titoli che fossero, è fallita e che questo genere di fallimenti si paga, sia che si fosse corrieri "ufficiosi" di qualche governo sia che si fosse semplicemente degli spalloni di qualche strana associazione malavitosa internazionale.

A proposito di associazioni internazionali: alcuni giornali USA, senza alcun senso logico, avevano dato per scontato che sotto questa storia ci fosse la mafia.

Quella nostrana.

Pare per lo meno curioso che non abbiano pensato, piuttosto, alla molto più potente mafia giapponese, che oltretutto gode di notevoli e neanche tanto coperti appoggi fino alle più alte cariche del paese del Sol Levante.

In ogni caso, dicevo, bisogna qui ribadire che i BOND sono, con ragionevole certezza, autentici.

Perchè lo affermo?

Beh, intanto a più di un mese di distanza, ancora non c'è una dichiarazione ufficiale della Nostra Guardia di Finanza che dica chiaramente che si tratta di falsi.

Certo: questo implicherebbe ammettere che si è rilasciato i due giapponesi per ordine superiore diretto e quindi ammettere che c'e' una grossa storia internazionale dietro la vicenda. Tuttavia credo che la spiegazione più semplice sia che la documentazione bancaria autentica (nessuno ne contesta infatti l'autenticità, almeno per ora) allegata ai bonds e le stesse caratteristiche dei "treasure notes" portino a ritenere che siano originali.

Nel frattempo il governo americano non ha ancora rilasciato una nota ufficiale, motivata, sulla falsità dei titoli, ma solo un paio di estemporanee dichiarazioni di suoi funzionari che si sono affrettati a dichiarare tali titoli falsi.

Proprio queste affrettate dichiarazioni potrebbero invece costituire un prova della chiara malafede dei funzionari in questione e della volonta di insabbiare tutto.

I funzionari hanno infatti sostanzialmente affermato che il totale dei bond cartacei in circolazione non è superiore a 100 milioni di dollari, che non ne sono stati mai emessi per tagli cosi grandi e che i Kennedy Bonds non sono mai esistiti.

Infine hanno detto, sulla base di immagini prese da internet, che sono chiaramente falsi.

Il punto interessante è proprio il primo.

Benchè tutti si siano affrettati a parlare di buoni del tesoro USA, o di treasury bonds, in realtà si tratta di titoli DIVERSI.

Sono infatti, a quanto parrebbe, dei Treasury notes, ovvero, a tutti gli effetti, qualcosa di molto simile alle banconote, sia pure di taglio ciclopico. NON sarebbero di libera circolazione essendo stati, in pratica, utilizzati solo per scambi tra stati.

I famosi Kennedy NOTES, da un miliardo di dollari l'uno, potrebbero essere esistiti davvero, a quanto riportano Asia News e il sito di Turner e questo da solo dimostrerebbe la probabile cattiva fede dei funzionari USA che ne negavano l'esistenza.

In particolare Stephen Meyerhardt, un portavoce del dipartimento del tesoro americano aveva affermato, in una intervista al Times: “The whole thing is a total fraud,they don’t look anything like real securities, which in any case were never issued in any of those denominations.”

"L'intera faccenda è una frode, non somigliano in niente ai buoni del tesoro originali, che in ogni caso non sono mai stati emessi in tali tagli"

In realtà, questa è probabilmente falso: titoli di queste dimensioni parrebbe che vengano emessi DI CONTINUO dalla FED, pur non essendo liberamente disponibili sul mercato, tanto che a quanto pare circolano frodi finanziarie proprio basate sulla loro esistenza.

E' un segreto di pulcinella: guardate questa immagine, ad esempio, o questa, da cui è tratta l'immagine di questo post. Sono immagini di qualche mese fa, di tempi quindi non sospetti, non correlate direttamente a questa vicenda.

Ambedue rappresentano una ricevuta per il deposito di un numero di bonds ridotto, 2 o 4 (si vedano i nr di serie) per la somma di uno o due miliardi di dollari.

Basta dividere il totale per il numero di titoli che risulta dai nr di serie ed ecco che si può verificare che potrebbero davvero esistere titoli da 500 milioni di euro.

Evidentemente, se qualcuno si è preso la briga di falsificarli, devono esistere: chi mai si prenderebbe la briga di fare banconote da 1000 euro false?

Ma se questo genere di bonds esiste perchè negarne l'esistenza?

Semplicemente perchè cosi si evitano gli accurati controlli che porterebbero, molto rapidamente, a determinare chi potrebbero esserne stati i detentori ( non è che ne siano stati emessi a migliaia evidentemente) l'incrocio sui numeri di serie, etc etc.

In breve: ammettere l'esistenza di bonds di queste dimensioni potrebbe portare ad una rapida verifca che accerterebbe chi dovrebbe esserne in possesso e quindi se quelli sequestrati sono autentici o falsi.

Ma quale motivo ci sarebbe di tutta questa manfrina, SE fossero falsi?

QUINDI i bonds sono veri, essendo stata architettata questa manfrina.

Tra parentesi questi titoli segnalano anche un possibile utilizzo di questo tipo di strumenti finanziari.

In pratica un soggetto non ben definito deposita (virtualmente) denaro dalle origini le più varie (connettere i puntini...) presso la FED e questa emette un titolo al portatore di dimensioni equivalenti, chiaramente molto più agevole da trasportare, senza lasciare traccia del passaggio, in un paradiso fiscale, ad esempio in Svizzera.

Se ho ben capito: anziche trasportare quintali di banconote o lasciare complicate tracce telematiche, mollo tutto il contante presso la FED, questa mi dice grazie e mi da un bel ricevutone , esigibile in ogni momento DAL PORTATORE, con scritto su un miliardo, ESATTAMENTE come quello del signor Bonaventura.

Con questo bel fogliolone, sia pure tra mille sudori freddi, posso andare in un istituto svizzero (ad esempio) e, dopo le verifiche del caso, vedermi accreditato un bel miliardino di dollari. Nessuna traccia, nessun brutto legame con brutti ceffi in cerca di lavanderie monetarie compiacenti.

Come avevamo già scritto, manco a dirlo, i paradisi fiscali non solo sono comodi ma sono essenziali al funzionamento della macchina finanziaria mondiale.

Ecco perchè i proclami del G8 sono semplicemente risibili.

Ecco perchè i bond sono probabilmente veri ed anche se fossero falsi indicherebbero la stessa cosa, darebbero lo stesso segnale.

Il segnale che la ricreazione è finita, che i nodi vengono al pettine e che i topoloni più furbi scappano sulle scialuppe fiscali di tutto il mondo.

Qualcuno dei commentatori USA della vicenda ha indicato che questa storia potrebbe essere il colpo di grazia per il dollaro, se risultasse che i titoli sono autentici e che i due tipi agivano su incarico della propria banca centrale.

Certo, è evidente.

Ma anche se fossero falsi dimostrerebbero che questo genere di operazioni è plausibile, atteso e probabilmente già in atto.

E' infatti possibile, torno a ripetere, falsificare una banconota da 100 euro, ma chi sarebbe cosi tonto da farne una da 150?

Il dollaro è qundi finito?
Si. Altamente plausibile e, di conseguenza, per un naturale effetto di feed-back positivo , altamente probabile.

Con lui, mi pare evidente, se ne andranno anche le prospettive di una rapida ripresa dell'economia USA e quindi del resto dle mondo.

Questa recessione durerà.

Durerà fino a che non ci decideremo a cambiare sistema.

Il punto è: cosa ci racconteranno, i nostri pavidi governanti per convincerci a farlo? Ci vorrà, come in altre occasioni una situazione eccezionale, una minaccia alla sicurezza mondiale da additare come la vera causa delle dolorose misure necessarie?

Beh, se la storia è maestra e non accade l'impensabile (che pure capita, alle volte) le cose andranno proprio così.

Pietro Cambi

giovedì 9 luglio 2009

Dichiarazione finale del G8 (anticipazione)

Perchè salvare il pianeta.. blah blah etc etc.

La crisi economica...blah rilancio blah blah fiducia etc blah pompose dichiarazioni blah

(da Informazione Scorretta)

martedì 7 luglio 2009

Tutti ricorrono al protezionismo, sottobanco

dal Financial Times

WTO warns on barriers to trade

By Joshua Chaffin in Brussels

Published: July 2 2009 00:14 | Last updated: July 2 2009 00:14

Governments around the world have continued to push up trade barriers in spite of high-profile pledges at the G20 summit and other forums to resist protectionism, according to a World Trade Organisation report to be published on Thursday.

Over the past three months, the WTO recorded 83 trade-restricting measures undertaken by 24 countries and the European Union – more than double the number of trade-liberalising measures enacted during the same period. However, the report noted that the worst abuses had largely been contained.

The figures do not include restrictions on pork imports implemented by 39 countries in the wake of the swine flu outbreak.

The WTO warned that a surge of new anti-dumping investigations could materialise as the economic crisis dragged on. It also lowered its forecast for world trade; it is now predicting that the volume for goods and services will contract 10 per cent this year as opposed to the 9 per cent previously expected.

“In the past three months there has been further slippage towards more trade restricting and distorting policies,” the report concludes.

It offers the clearest barometer of the rise in protectionist pressures as governments try to shield domestic industries from the effects of the economic and financial crisis. It also confirms the myriad ways countries can raise trade barriers without violating WTO rules, such as launching anti-dumping investigations, granting export subsidies and raising tariffs within legal limits.

Comparative chart showing world trade volumes

The report is likely to be seized on by proponents of the Doha round of trade talks to restart negotiations on a broad treaty that would do away with many of these exceptions.

World leaders pledged to resist protectionism and support free trade in order to speed the economic recovery and avoid the mistakes of the 1930s as the centrepiece of the London G20 summit in April.

Yet trade tensions have repeatedly been on display since then, including a decision by the US and EU last week jointly to take WTO action against China for allegedly hoarding natural resources.

Many trade lawyers say they are braced for a surge in anti-dumping complaints in the coming months as crisis-stricken companies take action against foreign competitors they might have tolerated in better times. Anti-dumping investigations increased 28 per cent last year compared with 2007.

The WTO found that the goods most affected thus far have been agricultural products – particularly dairy – iron and steel, autos, chemicals and plastics, and textiles and clothing.

The report noted a slew of sector-specific programmes introduced by governments to support automakers, pulp and paper producers and others. A total of 19 governments reported moves to support financial institutions.