domenica 25 ottobre 2009

Il Pil non è tutto uguale per cicale e formiche(dal Sole 24 Ore)

di Marco Fortis

In tempi di generale disorientamento come questi è necessario recuperare quella visione prospettica che era una caratteristica dell'approccio degli economisti storico-teorici come Simon Kuznets, che teorizzavano i "movimenti secolari", o di grandi personalità del pensiero economico italiano come Giorgio Fuà, che ha analizzato i cicli dell'Italia tracciandone una precisa stilizzazione di lungo periodo. E vale la pena chiedersi: fino a che punto nell'ultimo quindicennio un modello squilibrato, basato sull'aumento al di fuori di ogni controllo della finanza, dell'immobiliare e dell'indebitamento del settore privato, ha marcato la differenza di crescita economica tra i "paesi cicala", Usa, Gran Bretagna e Spagna, da un lato, e i "paesi formica", Francia, Germania e Italia, dall'altro, che hanno continuato a svilupparsi soprattutto facendo leva sull'economia reale? E adesso che, scoppiata la crisi, per i paesi cicala si prospetta anche una difficoltosa exit strategy dal nuovo debito pubblico creato per sanare i debiti privati, come cambierà il giudizio della storia su di essi? Inoltre, c'è stato realmente negli ultimi anni, alla luce della nostra mancata "bolla" immobiliare e finanziaria, quel "declino" dell'Italia che per molti è diventato quasi una verità di fede?
Se guardiamo alle statistiche di lungo periodo sulla crescita del Pil pro capite ricostruite da Angus Maddison (si veda la tabella a pagina 8), vediamo che nel 1950-1973 il Giappone è stato il paese con il più forte sviluppo assieme alla Germania, ma sono cresciute molto anche Italia e Spagna in un tipico processo di convergenza, mentre Usa e Regno Unito sono stati i fanalini di coda. Questi ultimi due paesi sono cresciuti poco anche tra il 1973 e il 1995, mentre sono stati ancora Italia, Spagna e Giappone ad avere i tassi di sviluppo più forti anche se con una decelerazione verso fine periodo.
Nel secondo dopoguerra il miracolo tanto esaltato dei paesi anglosassoni è dunque risultato circoscritto esclusivamente al 1995-2006: infatti, in questo periodo Usa e Regno Unito accelerano, mentre la Spagna cresce persino più che nel 1973-1995.
Merito di tecnologia-terziario avanzato-liberalizzazioni-efficienza della pubblica amministrazione-meritocrazia (fattori virtuosi che anche noi reputiamo come tali) o dei debiti?
All'opposto i paesi formica Germania, Italia e Francia nel 1995-2006 hanno fortemente rallentato. Colpa di un modello di sviluppo superato o perché i tre grandi Paesi dell'Euroarea hanno fatto molti sacrifici per cementare l'euro e pochi debiti?
La risposta va cercata in buona parte nella contabilità poco conosciuta del debito "aggregato": aspetto cruciale di cui proponiamo una contabilità nuova, coerente con lo schema adottato per la definizione del debito del settore privato dalla Banca centrale spagnola. Al debito pubblico rilevato tradizionalmente secondo i criteri di Maastricht, sommiamo il debito del settore non finanziario privato misurato come somma dei prestiti totali erogati a famiglie, enti non profit e imprese più lo stock di titoli diversi dalle azioni emessi da enti e imprese.
Come appare dalla tabella qui sopra, nel 1995 il debito "aggregato" più elevato in percentuale del Pil tra i cinque maggiori Paesi Ue e gli Usa era quello dell'Italia, che tuttavia sorprendentemente non era di molto superiore a quello di Usa e Uk (come già evidenziato anche da Massimo Mucchetti sul Corriere della sera, sia pure con serie storiche differenti). Su valori più bassi si collocavano Germania, Francia e Spagna. Il nostro tallone d'Achille era il debito pubblico, entità macroeconomica sotto i riflettori di tutto il mondo, mentre americani e inglesi già presentavano valori molto elevati del debito microeconomico delle famiglie, ma ancora non tali da costituire una realtà macroeconomica preoccupante. A quell'epoca si guardava pressoché solo al debito pubblico come cartina di tornasole per capire l'equilibrio finanziario di una nazione, sicché l'Italia era unanimemente additata come la "pecora nera".
È tra il 1995 e il 2007 che avviene il disastro. Infatti, mentre il debito "aggregato" dell'Italia cresce solo di 17 punti di Pil e quello della Germania di 25 punti, il debito aggregato di Usa, Gran Bretagna e Spagna esplode: rispettivamente, di 54, 77 e 120 punti di Pil, sotto l'impulso del settore privato, i cui squilibri da microeconomici diventano macroeconomici. Il debito aggregato del settore non finanziario americano cresce soprattutto per effetto dei debiti delle famiglie, quello degli inglesi e degli spagnoli per l'effetto congiunto del boom dei debiti di famiglie e imprese. In definitiva, tra il 1995 e il 2007 la diversa crescita del Pil pro capite dei paesi "cicala" e "formica" è stata direttamente proporzionale alla crescita del debito aggregato del settore non finanziario.
Ma non è finita. Ora aumenteranno i debiti pubblici dei Paesi cicala che presentano le situazioni finanziarie private più dissestate. Sicché, se facendo un rozzo esercizio previsionale tenessimo invariati i debiti privati del 2007 e considerassimo le previsioni sui debiti pubblici della Commissione europea e del governo Usa, nel 2010 a fronte di un debito aggregato dell'Italia e della Germania pari, rispettivamente, al 223% e al 205% del Pil, il debito aggregato degli Usa salirebbe al 275%, quello della Spagna al 277% e quello della Gran Bretagna al 291%.
Dunque negli ultimi anni l'Italia, pur frenata dalle sue croniche inefficienze, non soltanto ha perso meno quote di mercato nell'export mondiale di manufatti rispetto agli altri maggiori paesi avanzati accrescendo il suo peso nel G-7 (come abbiamo già evidenziato su queste colonne l'11 giugno scorso), ma ha avuto anche una dinamica del Pil pro capite solo apparentemente modesta se depuriamo la crescita altrui dell'effetto debito. Inoltre, il Nord-Centro del nostro paese, dove vive una popolazione circa uguale a quella spagnola, ha tuttora un Pil pro capite a parità di potere d'acquisto di 7.000 euro più alto di quello della Spagna.
Questa crisi ha ancora molto da insegnare, soprattutto in una prospettiva storica. Ammesso che si abbia realmente voglia di imparare dalla storia.

05 luglio 2009

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