venerdì 3 aprile 2009

Perché la crisi Usa è una crisi sistemica (ottobre 2008)

[questo è un pezzo scritto nell'ormai lontano ottobre 2008, quindi alcune cose sono cambiate, ma l'impianto è stato confermato dagli eventi successivi, mi pare]


Dal 15 settembre 2008 i problemi della finanza americana sono divenuti evidenti anche agli spettatori più distratti con il crollo spettacolare della investment bank di Lehman Brothers, seguito immediatamente dalle crisi di AIG, Merryil Lynch, Morgan Stanley...e una serie di interventi da parte dell’autorità statale crescenti fino alla approvazione, implorata da Bush, da parte del Congresso di un immenso piano di bail out, ossia di “pagamento del riscatto” che muoverà cifre vicine a mille miliardi di dollari (detto in una valuta ancora a noi familiare: circa due milioni di miliardi di lire) e sulla cui efficacia molti economisti (e contribuenti americani) hanno espresso fondati dubbi.

Nel rumore di fondo fra veline, Alitalia e il calcio, dal nostro Paese è molto difficile discernere bene la situazione. Di volta in volta vediamo attacchi al sistema Usa “troppo sfrenato” o alle banche predatrici, o tentativi sfacciati di liquidare il tutto come una delle solite fasi cicliche, cui seguirà una rapida ripresa, il tutto condito da illustri rassicurazioni sulle garanzie offerte dal nostro sistema bancario rispetto alle regolazioni dei sistemi anglosassoni (nessuno già più ricorda che al tempo della vicenda Fazio-Bankitalia gli elogi erano nella direzione opposta, o i vari scandali finanziari italiani, come Parmalat, Cirio solo per gli ultimi anni).
Escludendo da un’analisi la televisione, costitutivamente portata a superficialità di temi e logiche di fazione (le tristissime scene di politici italiani che cercano, in tutta incompetenza, di trarre acqua al proprio mulino, mentre è tutta la cittadella occidentale ad andare a fuoco), e limitandoci ai giornali, solo pochissimi sono in grado di proporre una qualche analisi significativa e non puramente di sbigottimento da sen di poi.
Costante è però l’assenza di una visione complessiva e meditata dei fattori alla base della crisi, che sono più d’uno, diversi fra loro ma concatenati: di volta in volta infatti le soluzioni proposte riguardano solo sulle cause più evidenti, sugli aspetti più macroscopici che in realtà sono a loro volta effetti di fenomeni sottostanti.
Un intervento condotto su queste basi può cercare di affrontare il problema hic et nunc dell’immensa quantità di debiti che grava sul sistema, ma non impedisce che tale questione si ripresenti a breve, di fronte a casse nazionali e private già stremate.
In ordine di “celebrità” possiamo mettere in fila i diversi elementi che ci hanno portato a questo dissesto:

1. L’AVIDITA’ DEI BANCHIERI

Nel titolo di questo paragrafo si sarebbe potuto precisare “banchieri (Usa)”, poiché è solo verso di loro che si è rivolta per ora una universale riprovazione, specialmente levata dalle poltrone delle cancellerie e delle istituzioni finanziarie del Vecchio Continente, “così diverse dalle sregolate banche Usa”. In realtà credo che ben presto chi leggerà questo articolo sarà già furente e sdegnato anche verso i nostri banchieri: circa cinque giorni dopo aver deprecato gli eventi settembrini in Usa, lo stesso ministro tedesco ha dovuto firmare il salvataggio del gruppo Hypo per 35 miliardi di euro, che ha a sua volta inguaiato la nostra Unicredit, il Belgio ha potuto salvare il gruppo Fortis solo con l’aiuto congiunto di Olanda e Lussemburgo, e un articolo del Financial Times ha rilevato come il leverage dei maggiori gruppi bancari europei (l’”effetto leva”, ossia i soldi prestati ma che non si avevano in cassa) è ben più alto di quello delle banche Usa già saltate. Pare che infatti che le famose “severe legislazioni” Ue (in particolare Basilea 2) consentano però di superare largamente gli stretti requisiti sul capitale dietro stipula di assicurazioni a garanzia dei crediti ed effettuate perlopiù...con la americana AIG! Senza il salvataggio da parte del Tesoro Usa, la garanzia sarebbe venuta completamente a mancare, creando una pericolosa esposizione e necessità di trovare il nuovo capitale necessario per rientrare nei parametri.
Le banche svolgono un ruolo indispensabile nella nostra società, smuovendo i capitali inerti per investirli contribuendo allo sviluppo, come nel caso della nascita di nuove aziende e acquisto di nuove case, e l’effetto leva ne è un esempio, in un sistema commerciale e monetario basato comunque sulla fiducia.
Il problema in questo caso è stato un apparentemente inspiegabile impulso a prestare danaro a chi non l’avrebbe potuto restituire, un comportamento che parrebbe insensato ai più. Ciò sia con la concessione di mutui “sub-prime” (termine che indica la classificazione di grave rischio per il prestatore), con ipoteca sulla casa basata sulle valutazioni “dopate” dalla bolla immobiliare, che hanno causato la crisi attuale, sia con il martellante e pervasivo sistema delle carte di credito, anch’esso prossimo al collasso, situazione già evidenziata per gli Usa nel 2006 dal documentario “In debt we trust” del giornalista investigativo Danny Schechter.
Ma per quale ragione i banchieri “regalano danaro”?
Ebbene innanzitutto per il ricordato “effetto leva”, prestano normalmente danaro in quantità maggiore di quello che hanno in deposito (altrimenti il meccanismo di prestito sarebbe paralizzato: ora però qui si parla di 30 a 1, 60 a 1...).
In secondo luogo, su quel prestito lucreranno gli interessi, per un tempo che potrebbe essere anche molto lungo, se non indefinito, e che mette il debitore in una posizione esposta ai mille trabocchetti di una controparte ben più forte e preparata: ad esempio, per le carte di credito in Usa, anche piccoli ritardi sui versamenti portano a letali moltiplicazioni degli interessi, per cui sfruttando le disattenzioni dei titolari li si pone nella frustrante situazione da paese del Terzo Mondo, costretti a pagare cifre crescenti per anni senza mai intaccare il vero debito.
Inoltre le banche in caso di mancata restituzione acquistano la proprietà del bene dato in garanzia: bisogna dire che ciò sarà un ghiotto boccone nel caso di attività commerciali o fabbriche, meno gradito forse per le abitazioni, con un valore delle case che in Usa, dopo anni in cui era schizzato alle stelle (boom che permetteva di ottenere grassi prestiti dietro ipoteca), sta precipitando, e data la peculiare struttura in legno (quindi una natura sostanzialmente deperibile) della maggior parte delle villette americane che dovranno rimanere vuote per molto tempo.
Ma questi punti sono parte della tradizionale dinamica fra banca “tentacolare” e debitore da sempre, li ritroviamo nelle trame dei romanzi ottocenteschi e via via risalendo nei secoli nella tradizionale diffidenza e ostilità verso la figura necessaria ma “scomoda”del banchiere, di cui ha fatto le spese il popolo ebreo fin dal Medioevo; la novità degli ultimi anni è stata l’introduzione di un ulteriore stimolo per le banche a “regalare denaro”.
Le banche infatti sono riuscite a tramutare il rischio che si erano consapevolmente assunte in fonte di enormi guadagni: un’enorme massa di titoli finanziari basati in tutto o in parte sulla riscossione di quei crediti sono stati immessi sul mercato, i “derivati”. Prodotti assai complessi e dalle molteplici denominazioni, di cui l’investitore non coglieva gli aspetti minacciosi (si stava accollando il pericolo di una mancata restituzione) ma solo i succulenti alti tassi di interesse: struttura ora maledetta da molti risparmiatori rovinati, ma che ne ha decretato un notevole successo nonché una certa fama snob di punta di lancia della nuova e sbarazzina “finanza creativa”.
Tali prodotti ora definiti “tossici”, perché celano il nulla (i soldi dei mutui non torneranno indietro), sono stati ceduti e acquistati da banche e istituzioni finanziarie di tutto il mondo: in Europa e in Italia sono stati proposti con grave colpa (se non rapace dolo) anche a piccoli risparmiatori come brillante mezzo d’investimento dei propri risparmi, ben più moderno dei banali titoli di stato. Non è da escludersi che, valutando ex post come sospetta la pressante premura, evidente a chiunque avesse rapporti bancari, nel consigliare certi investimenti negli ultimi tempi, le banche abbiano realizzato ciò che stava accadendo in Usa e abbiano cercato di scaricare rapidamente al “parco buoi” (così Enrico Cuccia chiamava gli ignari risparmiatori) una patata diventata bollente, come già avvenuto pochi anni fa con i titoli argentini da parte delle banche europee e italiane (in questi giorni tanto decantate per onestà e trasparenza).
I facili e rapidi guadagni hanno creato un incentivo poderoso ad inventare e vendere nuovi derivati sempre più articolati, in cui l’obbligazione sottostante era solo una parte del prodotto e così meno riconoscibile, in una serie di passaggi di mano che i manager erano incoraggiati ad incrementare per staccare più ricchi bonus. L’effetto è stato un risultato simile a quello di un ristoratore che mescoli con abilità cibo avariato a cibo buono: gli avventori mangeranno felici per il guadagno dato da un prezzo particolarmente (e forse sinistramente) conveniente, e aumenteranno di numero fino a quando si scoprirà la verità...e nessuno più si arrischierà di ordinare alcunché (e magari il cuoco spregiudicato finirà in galera). Galera esclusa (al massimo qualche linciaggio, forse fra qualche tempo) è ciò che sta accadendo sui mercati finanziari. Nessuno sa più cosa sia buono e cosa no, nè quanto le altre banche o imprese abbiano mangiato di marcio: nessuno si fida più, dal piccolo al grande, ed ecco la paralisi del credito fra banche, ma anche del credito alle imprese, un poderoso ostacolo a investimenti, acquisizioni e tutte le operazioni che richiedono passaggi bancari.
Un elemento di ulteriore inquietudine, non solo economica ma geopolitica, al di là delle vicende individuali dei risparmi europei volatilizzati, è che molta parte dei finanziamenti giunti alle banche Usa in difficoltà già da anni sono di fondi sovrani, ossia entità che gestiscono patrimoni nazionali di Stati emergenti quali Paesi Arabi e soprattutto la Cina, per la quale un tracollo del mercato statunitense, suo più importante cliente, sarebbe un notevole guaio. Tali fondi, avendo molta liquidità disponibile, ora sono di fatto entrati nelle sale dei bottoni della finanza americana, ma devono pur sempre rispondere alle esigenze dello Stato che li controlla, intenti non necessariamente coincidenti con le logiche di mercato né con gli interessi del mondo occidentale.


2 LA FALLITA REGOLAZIONE


E’ innegabile che il primo crack è stato quello delle Authority: enti indipendenti preposti a funzioni di sorveglianza, con poteri sempre più ampi quanto clamorosamente inefficaci nel prevenire la crisi. Per ora, e si ripete per ora, possiamo puntare il dito solo contro i guardiani statunitensi, l’autorità monetaria e l’autorità finanziaria. Hanno permesso che il costo del denaro fosse basso (favorendo il meccanismo di credito facile che ha incoraggiato ad accendere mutui a rischio) e hanno permesso che si creassero attraverso fusioni dei gruppi interbancari giganteschi (in Europa in diversi casi dalle dimensioni superiori alle possibilità di salvataggio degli Stati in cui hanno sede), non hanno mai posto controlli più pregnanti su ciò che facevano le banche d’affari.
Un atteggiamento giustiziero deve però tener conto della difficile e per certi versi impotente posizione di tecnici e politici nei confronti dell’opinione pubblica e del big business: gli ultimi 20 anni sono stati un crescendo di benessere inaudito con un’economia e finanza ruggenti ed osannate. Ogni tentativo di imbrigliarle con lacci regolatori sarebbe stato certamente incompreso e osteggiato non solo dagli operatori di Wall Street, ma anche dai Venerati Maestri delle università e dall’”uomo a passeggio per High Street”, ossia l’uomo comune ed elettore.
Per alcuni aspetti inoltre è stato l’intervento politico più che la deregulation a fare danni: una forte distorsione del mercato immobiliare statunitense è avvenuta proprio a causa della presenza di Fannie Freddie e Fannie Mac, due fondi governativi che hanno prestato mutui favorevoli alle classi più povere fino a svuotare le loro casse, fortemente voluti dai Democratici fin dalla presidenza Clinton (quindi non è “tutta colpa di Bush”), con l’aggiunta di diversi provvedimenti che imponevano alle banche di abbassare le garanzie richieste per la concessione dei prestiti per la casa.
E in Europa? Attendiamo, ma da anni i principi contabili internazionali sono modellati su quelli in uso nel mondo anglosassone, considerati più affidabili di quelli continentali, quindi tali errori di valutazione compiuti laggiù non ci fanno ben sperare.
In ogni caso, ogni discussione sulle possibili future regolazioni dovrà tener presente che un sistema di regole fisse sarà sempre vulnerabile da parte dello sfuggente mondo della finanza, che può mettere in campo risorse e teste ben più agguerrite dei singoli stati, e badando al momento contingente, non si può dimenticare che i buoi sono già scappati, e che è già entrata in circolo una enorme e ancora non ben delineata massa di debito (per ora conosciamo, parzialmente, solo cifre strettamente legate ai mutui non ripagati; ben poco sulla più vasta estensione dei derivati, delle falle delle carte di credito, etc). Va data priorità a questo problema, semplicemente perché non ci potrebbe essere nulla da regolare dopo che esso ha colato a picco il sistema.


3. LA PRECARIZZAZIONE E I MUTUI SUBPRIME


I primi due punti qui illustrati non portano nulla di nuovo a quello che dovrebbe essere chiaro per un qualsiasi lettore dei quotidiani: le banche hanno prestato a chi non poteva restituire, per lucrare sulla vendita di prodotti collegati che hanno creato una voragine finanziaria mondiale, e le autorità non hanno vigilato, punto.
Una domanda non viene mai posta: ma perché in Usa così tanta gente ha fatto ricorso a prestiti?
Al crollo di Lehman Brothers, ci si poteva attendere una “run on the bank” simile a quella del ’29, con file di risparmiatori ansiosi di ritirare i loro depositi in tempo prima del default totale: invece, nessuna scena del genere in tutta la nazione. Una risposta molto semplice può essere ipotizzata sulla base dei dati bancari: gli americani non sono corsi alle banche perché là non hanno alcunché da ritirare, i risparmi sono tutti esauriti da tempo.
Pur con alti tassi di occupazione, i posti di lavoro in Usa sono pienamente rispondenti alle leggi di mercato, ossia precari. Facile essere licenziati, ma facile essere riassunti dalle altre aziende, sorte come funghi proprio grazie alla legislazione che tende ad assecondare al massimo gli “animal spirits” degli imprenditori: tale meccanismo ha però retto solo nella realtà ideale di qualche accademico.
Non si era tenuto conto dell’impatto della delocalizzazione di interi settori dell’economia verso paesi a basso costo quali Cina e Messico; si sono sopravvalutate le possibilità di riqualificazione di lavoratori manuali, magari abili ed appassionati del loro lavoro, nel riconvertirsi prontamente in altri settori economici. E’ molto difficile che cambi strutturali quali quelli richiesti si possano svolgere in poco tempo.
E’ un fenomeno che in Italia è stato possibile osservare solo negli ultimi tempi: il passaggio da un’economia di produzione ad un’economia di consumo. Il fulcro passa dalla fabbrica al centro commerciale, dai settori primario e secondario ad un sistema che tenta di imperniarsi solo sui servizi. Di fronte alla chiusura delle attività manifatturiere e al dettaglio, oltre alle corazzate (spesso gruppi stranieri) dello shopping le uniche nuove aperture sembrano essere tutte di agenzie viaggio, agenzie immobiliari e filiali di banche.
La precarizzazione da una parte rende difficile accumulare capitale per affrontare le grosse spese della vita, d’altra parte rende impossibile l’erogazione di prestiti bancari con l’utilizzo dei tradizionali stretti requisiti e garanzie. Le banche avrebbero potuto prestare a ben poche persone, andando così contro la loro stessa essenza, suscitando l’ira dei loro consigli d’amministrazione, e una larga fascia di popolazione, non necessariamente classificata fra le classi povere, con una base lavorativa instabile non avrebbe mai potuto ottenere mutui per la casa, scuola o sanità, e ciò avrebbe avuto ricadute sull’economia individuale ma anche collettiva, poiché quei soggetti sono anche consumatori di beni.
Si sottovaluta questa componente alla base della crisi: noi come occidentali siamo diventati più poveri, mentre godevamo di un benessere senza precedenti. E ciò è stato possibile solo grazie al massiccio ricorso al Debito.


4. CONSUMISMO

Infine, il punto che a mio avviso più solleva un interrogativo sulle possibilità di tenuta del nostro sistema è: ma che fine ha fatto il denaro dato in prestito ai singoli americani? Una possibilità, seppur bassa, di restituzione c’era pur sempre, ma ben pochi l’hanno fatto. Perché?
La risposta è: spesi in stronzate.
Ciò perché gli occidentali in genere sono seriamente lesi nella loro capacità di discernimento di ciò che è indispensabile o no, in quanto bersaglio inconsapevole di una martellante e studiata serie di messaggi che invitano a vivere la propria vita, a non rinunciare a nulla, insomma a spendere.
La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva, ma quando i beni commerciati sono sempre più superflui allora l’invito a spendere si farà via via più subdolo e diabolicamente accurato, somme enormi saranno spese per spot di pochi minuti e indagini di mercato, in quanto sarà più difficile convincere il consumatore a spendere per ciò di cui ha ben poco bisogno.
In questo modo la capacità dei singoli di stabilire le corrette priorità è stata molto offuscata. Un buon esempio: quando pian piano ci si rende conto che la liquidità scarseggia, l’occidentale tende per prima cosa, istintivamente (ma è un “istinto” artificiale) a tagliare sul cibo! Notizie recenti vedono una grande crescita dei discount alimentari, con annesso aumento di obesità per la pessima qualità spesso offerta, e una crescente rabbia popolare fomentata dagli organi di stampa contro l’aumento del pane del 5% (effetto sulle casse familiari: +20 euro l’anno)...nessuno mai realizza che forse sono le centinaia di euro per l’abbonamento satellitare (che sfrutterà pochissimo, visto che gli orari lavorativi tendono ad espandersi a dismisura, modo meccanico per aumentare la produttività) o il cellulare pieno di gadget inutili ma cambiato ogni tre mesi ad incidere sul bilancio personale!

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