martedì 29 settembre 2009

Menzogna afgana

di Massimo Fini - 28/09/2009


Dobbiamo piantarla con la menzogna che siamo in Afghanistan, oltre che per portarvi una democrazia di cui a quella gente non importa nulla, per combattere il terrorismo internazionale.

Gli afgani non sono mai stati terroristi, tantomeno internazionali. Non c'erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Quaeda scoperte dopo l'11 settembre. C'erano arabi sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, algerini, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo conflitto contro l'invasore sovietico gli afgani non si resero responsabili di un solo atto terroristico, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori dal loro Paese, e se dal 2006 si sono decisi a ricorrere anche a quest'arma all'interno di una guerra di guerriglia è perché si trovano di fronte ad un nemico quasi invisibile che usa prevalentemente bombardieri, possibilmente Dardo e Predator, aerei senza pilota ma armati di missili, telecomandati da Nellis nel Nevada. Del resto non si può gabellare una lotta di resistenza che dura da otto anni, con l'evidente appoggio di gran parte della popolazione senza il quale non potrebbe esistere, per terrorismo. Gli stessi Pentagono e Cia, nei loro documenti, chiamano i guerriglieri "insurgents", insorti. Solo il ministro La Russa usa ancora il termine "terroristi".

In Afghanistan all'epoca dell'attacco alle Torri Gemelle c'era Bin Laden. Ma i Talebani, preso il potere, se l'erano trovati in casa e, dopo gli attentati in Kenia e Tanzania, era diventato un problema anche per loro. Tanto che quando Clinton nel 1998, attraverso contatti discreti, propose al Mullah Omar di uccidere lo sceicco saudita il leader talebano si mostrò disponibile. Inviò a Washington il suo braccio destro, Ahmed Wakij, che incontrò il presidente americano due volte, il 28 novembre e il 18 dicembre. Wakij propose due alternative: o gli americani fornivano ai Talebani alcuni missili per colpire lo sceicco oppure sarebbero stati i Talebani a dare agli Usa le coordinate esatte del luogo dove si trova Osama in modo che potessero centrarlo a colpo scuro. Ma nell'un caso e nell'altro la responsabilità dell'attentato dovevano assumersela gli americani perché Bin Laden in Afghanistan aveva costruito ospedali, strade, ponti, godeva di una grande popolarità presso la popolazione e il governo talebano non poteva assumersi la paternità del suo assassinio. Stranamente Clinton declinò l'offerta (Documento del Dipartimento di Stato, agosto 2005).
In ogni caso Bin Laden è scomparso dalla scena da anni. Si dice allora che, Bin Laden o no, l'Afghanistan è tuttora la culla del terrorismo quaedista, cioè arabo. La Cia ha calcolato che fra i circa 50 mila "insurgents" ci sono 386 stranieri. Ma sono uzbeki, ceceni, turchi. Non arabi. E poi che interesse avrebbero i terroristi internazionali a far base in un Paese presidiato da 110 mila soldati Nato, quando potrebbero stare nello Yemen, dove c'è un governo che li protegge, o mimetizzarsi fra la popolazione in Arabia Saudita, in Giordania, in Egitto per prepararvi in tutta tranquillità i loro eventuali attentati? Al Quaeda, ammesso che esista, è una realtà del tutto marginale in Afghanistan. Ma noi la prendiamo a pretesto per continuare ad occupare quel Paese.
Le altre motivazioni con cui cerchiamo di legittimare la nostra presenza sono: riportare la sicurezza e la stabilità nel Paese, la lotta alla corruzione dilagante, alla disoccupazione, alla droga.

È del tutto evidente che la situazione di insicurezza e di instabilità è provocata proprio dalla presenza delle truppe occidentali perché quel popolo orgoglioso e fiero, che ha cacciato inglesi e sovietici, non tollera occupazioni, comunque motivate.

Stabilità e sicurezza ci sono state nei sei anni del governo talebano. E qui bisogna fare un passo indietro altrimenti non si capisce niente né del fenomeno talebano nè di ciò che accade oggi in Afghanistan. Dopo la sconfitta dei sovietici, i leggendari comandanti che li avevano combattuti, gli Ismail Khan, gli Heckmatyar, i Dostum, i Massud, e i loro sottoposti, in lotta per la conquista del potere, si erano trasformati in bande di taglieggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio. La crescita del movimento talebano fu dovuta a questo. I Talebani, appoggiati dalla popolazione che non ne poteva più di quei soprusi, combatterono e sconfissero i "signori della guerra" e li cacciarono dal Paese riportandovi l'ordine e la legge, sia pure un duro ordine e una dura legge, la shariah. Nell'Afghanistan del Mullah Omar, come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto, si poteva viaggiare tranquilli anche di notte. In quell'Afghanistan non c'era disoccupazione perché il Mullah, sia pur con qualche moderata e mirata concessione all'industrializzazione, aveva mantenuto l'economia di sussistenza. Non c'era corruzione per il semplice motivo che i Talebani facevano impiccare i corrotti. Infine dal 2000 non c'era neppure più traffico d'oppio perché il Mullah aveva troncato la coltivazione del papavero (si veda il diagramma pubblicato dal Corriere il 12/6/2006: nel 2001, anno in cui rileva la decisione presa nel 2000, la produzione di oppio crolla quasi a zero, oggi l'Afghanistan produce il 93% dell'eroina).

E allora cosa dovremmo fare? Sbaraccare e "lasciare che gli afgani sbaglino da soli". E invece restiamo. Le ragioni le spiega, senza pudore, Sergio Romano sul Corriere (19/9): gli Stati Uniti devono salvare la faccia, i Paesi alleati mantenere il loro "prestigio internazionale". E così per la nostra bella faccia continuiamo ad ammazzare uomini, donne, bambini afgani a decine, forse a centinaia di migliaia perché dei morti afgani nessuno tiene il conto quasi che non avessero anche loro, come i nostri "ragazzi", padri, madri, spose, figli. Non sono morti uguali ai nostri. Non appartengono alla "cultura superiore".

"Tutti paiono concordare con Bin Laden oggigiorno": solo Obama non capisce che stiamo perdendo l'Afghanistan

Everyone seems to be agreeing with Bin Laden these days

Only Obama, it seems, fails to get the message that we’re losing Afghanistan


Saturday, 19 September 2009
The Indipendent, Robert Fisk

Obama and Osama are at last participating in the same narrative. For the US president's critics – indeed, for many critics of the West's military occupation of Afghanistan – are beginning to speak in the same language as Obama's (and their) greatest enemy.

There is a growing suspicion in America that Obama has been socked into the heart of the Afghan darkness by ex-Bushie Robert Gates – once more the Secretary of Defence – and by journalist-adored General David Petraeus whose military "surges" appear to be as successful as the Battle of the Bulge in stemming the insurgent tide in Afghanistan as well as in Iraq.

No wonder Osama bin Laden decided to address "the American people" this week. "You are waging a hopeless and losing war," he said in his 9/11 eighth anniversary audiotape. "The time has come to liberate yourselves from fear and the ideological terrorism of neoconservatives and the Israeli lobby." There was no more talk of Obama as a "house Negro" although it was his "weakness", bin Laden contended, that prevented him from closing down the wars in Iraq and Afghanistan. In any event, Muslim fighters wold wear down the US-led coalition in Afghanistan "like we exhausted the Soviet Union for 10 years until it collapsed". Funny, that. It's exactly what bin Laden told me personally in Afghanistan – four years before 9/11 and the start of America's 2001 adventure south of the Amu Darya river.

Almost on cue this week came those in North America who agree with Obama – albeit they would never associate themselves with the Evil One, let alone dare question Israel's cheerleading for the Iraqi war. "I do not believe we can build a democratic state in Afghanistan," announces Dianne Feinstein, the California Democrat who chairs the senate intelligence committee. "I believe it will remain a tribal entity." And Nancy Pelosi, the House Speaker, does not believe "there is a great deal of support for sending more troops to Afghanistan".

Colin Kenny, chair of Canada's senate committee on national security and defence, said this week that "what we hoped to accomplish in Afghanistan has proved to be impossible. We are hurtling towards a Vietnam ending".

Close your eyes and pretend those last words came from the al-Qa'ida cave. Not difficult to believe, is it? Only Obama, it seems, fails to get the message. Afghanistan remains for him the "war of necessity". Send yet more troops, his generals plead. And we are supposed to follow the logic of this nonsense. The Taliban lost in 2001. Then they started winning again. Then we had to preserve Afghan democracy. Then our soldiers had to protect – and die – for a second round of democratic elections. Then they protected – and died – for fraudulent elections. Afghanistan is not Vietnam, Obama assures us. And then the good old German army calls up an air strike – and zaps yet more Afghan civilians.

It is instructive to turn at this moment to the Canadian army, which has in Afghanistan fewer troops than the Brits but who have suffered just as ferociously; their 130th soldier was killed near Kandahar this week. Every three months, the Canadian authorities publish a scorecard on their military "progress" in Afghanistan – a document that is infinitely more honest and detailed than anything put out by the Pentagon or the Ministry of Defence – which proves beyond peradventure (as Enoch Powell would have said) that this is Mission Impossible or, as Toronto's National Post put it in an admirable headline three days' ago, "Operation Sleepwalk". The latest report, revealed this week, proves that Kandahar province is becoming more violent, less stable and less secure – and attacks across the country more frequent – than at any time since the fall of the Taliban in 2001. There was an "exceptionally high" frequency of attacks this spring compared with 2008.

There was a 108 per cent increase in roadside bombs. Afghans are reporting that they are less satisfied with education and employment levels, primarily because of poor or non-existent security. Canada is now concentrating only on the security of Kandahar city, abandoning any real attempt to control the province.

Canada's army will be leaving Afghanistan in 2011, but so far only five of the 50 schools in its school-building project have been completed. Just 28 more are "under construction". But of Kandahar province's existing 364 schools, 180 have been forced to close. Of progress in "democratic governance" in Kandahar, the Canadian report states that the capacity of the Afghan government is "chronically weak and undermined by widespread corruption". Of "reconciliation" – whatever that means these days – "the onset of the summer fighting season and the concentration of politicians and activists for the August elections discouraged expectations of noteworthy initiatives...".

Even the primary aim of polio eradication – Ottawa's most favoured civilian project in Afghanistan – has defeated the Canadian International Development Agency, although this admission is cloaked in truly Blair-like (or Brown-like) mendacity. As the Toronto Star revealed in a serious bit of investigative journalism this week, the aim to "eradicate" polio with the help of UN and World Health Organisation money has been quietly changed to the "prevention of transmission" of polio. Instead of measuring the number of children "immunised" against polio, the target was altered to refer only to the number of children "vaccinated". But of course, children have to be vaccinated several times before they are actually immune.

And what do America's Republican hawks – the subject of bin Laden's latest sermon – now say about the Afghan catastrophe? "More troops will not guarantee success in Afghanistan," failed Republican contender and ex-Vietnam vet John McCain told us this week. "But a failure to send them will be a guarantee of failure." How Osama must have chuckled as this preposterous announcement echoed around al-Qa'ida's dark cave.

venerdì 25 settembre 2009

Mappa militari Usa nel mondo

Si può trovare qui, su Mother Jones.

Perché ho lanciato quella scarpa

di Muntazer Al Zaidi - 23/09/2009

da Come Don Chisciotte

“Non sono un eroe. Ho solo agito come un iracheno che ha visto il dolore e il massacro di troppi innocenti”.

Io sono libero. Ma il mio paese è ancora un prigioniero di guerra. Si è parlato molto di cosa ho fatto e di chi sono io, se si sia trattato di un atto eroico e se io sia un eroe, come per rendere quell’atto un simbolo. Ma la mia risposta è semplice: ciò che mi ha spinto a quel gesto è l’ingiustizia che si è abbattuta sul mio popolo, nonché il modo in cui l’occupazione ha umiliato la mia patria schiacciandola sotto il suo stivale.

Durante gli ultimi anni, più di un milione di martiri sono caduti sotto i proiettili dell’occupazione, ed oggi l’Iraq conta più di 5 milioni di orfani, un milione di vedove e centinaia di migliaia di mutilati. Molti milioni sono senza tetto, sia dentro che fuori dall’Iraq.

Noi eravamo una nazione nella quale l’arabo divideva il pane con il turcomanno, il curdo, l’assiro, il sabeano e lo yazid. Gli sciiti pregavano assieme ai sunniti. I musulmani festeggiavano assieme ai cristiani la nascita di Cristo. E ciò nonostante il fatto che condividessimo la fame, essendo sotto sanzioni per più di un decennio.

La nostra pazienza e solidarietà non ci ha fatto dimenticare l’oppressione. L’invasione, tuttavia, ha diviso anche i fratelli e i vicini di casa. Ha trasformato le nostre case in camere da funerale.

Non sono un eroe. Ma ho un punto di vista. Ho una posizione precisa. Mi ha umiliato vedere il mio paese umiliato; e vedere la mia Baghdad bruciare, la mia gente morire. Migliaia di immagini tragiche rimangono nella mia testa, spingendomi sul cammino del conflitto. Lo scandalo di Abu Ghraib. Il massacro di Falluja, Najaf, Haditha, Sadr City, Bassora, Diyala, Mosul, Tal Afar, ed ogni angolo di territorio martoriato. Ho viaggiato attraverso il mio paese in fiamme e ho visto con i miei stessi occhi il dolore delle vittime, ho sentito con le mie stesse orecchie le grida degli orfani e le vedove. Una sensazione di vergogna mi ha perseguitato come una maledizione, perché ero impotente di fronte a tutto ciò.

Non appena ho terminato i miei impegni professionali nel documentare le tragedie quotidiane, mentre sgomberavo le rovine di ciò che rimaneva delle case irachene, mentre lavavo il sangue che macchiava i miei vestiti, serravo i denti e ripromettevo di vendicare le nostre vittime.

L’occasione si è presentata, ed io l’ho sfruttata.

L’ho fatto per lealtà nei confronti di ogni goccia di sangue innocente versato con l’occupazione o a causa di essa, per ogni grido delle madri in lutto, ogni lamento degli orfani, la sofferenza delle donne violate, le lacrime dei bambini.

Io dico a coloro che mi rimproverano per il mio gesto: sapete in quante case distrutte è entrata la scarpa che ho lanciato? Quante volte ha calpestato il sangue delle vittime innocenti? Forse quella stessa scarpa era la risposta più appropriata quando tutti i valori sono stati violati.

Quando ho tirato quella scarpa in faccia al criminale George Bush, volevo esprimere il mio rifiuto nei confronti delle sue menzogne, per la sua occupazione del mio paese, il mio rifiuto per il suo massacro della mia gente. Il mio rifiuto per il suo saccheggio delle ricchezze del mio paese e la distruzione delle sue infrastrutture. E l’espulsione dei suoi figli in una diaspora senza precedenti.

Se ho fatto un torto al giornalismo senza averne intenzione, a causa dell’imbarazzo che ho creato all’interno dell’establishment, mi scuso. Ciò che volevo fare era esprimere con coscienza viva i sentimenti di un cittadino che vede il suo paese profanato quotidianamente. La professionalità, invocata da alcuni sotto gli auspici dell’occupazione, non dovrebbe avere una voce più alta della voce del patriottismo. Ma se il patriottismo ha bisogno di parlare, il professionista dovrebbe allearsi con lui.

Non ho fatto questo gesto affinché il mio nome possa entrare nella storia o per guadagni materiali. Tutto ciò che volevo fare era difendere il mio paese.

Titolo originale: "Why I Threw the Shoe" (guardian.co.uk)

Obama ripudia la difesa missilistica, e un secolo di politica estera?

A very foreign policy

In cancelling the European missile shield, Obama is overturning a century of foreign policy based on a one-hour lecture by a Victorian geographer

guardian.co.uk, Thursday 24 September 2009
Tistram Hunt

Barack Obama's decision to cancel the missile defence programme by closing radar bases in eastern Europe has provoked predictable derision on the Republican right. From Senator John McCain down, it has accused the president of naivety, weakness and, worst of all, ceding the Eurasian "heartland" to Russia. But while they might position themselves as modern, strategic realists, today's neocons are in fact bewitched by the foreign policy prescriptions of a late Victorian imperialist.

In 1904, the geographer Sir Halford J Mackinder rose, in a sparsely attended lecture theatre at the Royal Geographical Society, to deliver a talk entitled The Geographical Pivot of History. In one short hour, he set the perimeters for 20th-century geopolitics. The "Columbian age" of colonial expansion was at an end, he suggested, and a world criss-crossed by steam, telegram and train had become "a closed political system". As a result, "every explosion of social forces, instead of being dissipated in a surrounding circuit of unknown space and barbaric chaos, will be sharply re-echoed from the far side of the globe, and weak elements in the political and economic organism of the world will be shattered in consequence."Global diplomacy was now a zero-sum game, with every national victory won through the crushing of a competitor. As such, all talk of ethics and morality in foreign policy was for the birds. What mattered was power and the taking and holding of political space. The most important landmass – the "geographical pivot of history" – was central Eurasia, stretching from the edges of Europe across the steppes, desert and grassland of Russia until the Sea of Japan. And the key to controlling this heartland was to gain supremacy over eastern Europe: "Who rules East Europe commands the Heartland/Who rules the Heartland commands the World-Island/Who rules the World-Island commands the World."

So, in the aftermath of the first world war, Mackinder urged a buffer zone of friendly states – Poland, Czechoslovakia and Hungary – to prevent Germany and Russia joining forces. A single geopolitical entity in charge of the Ukrainian wheatfields, Ural riches and Siberia would pose a devastating threat to British imperial interests. This was very much Hitler's thinking – introduced to Mackinder's geopolitics by Rudolf Hess – when he established the Nazi-Soviet pact.

Then, as the Allies' victory looked assured and Stalin started to make a bid for hegemony, the elderly Mackinder warned how "the territory of the USSR [was] equivalent to the heartland" and that "if the Soviet Union emerges from this war as conqueror of Germany, she must rank as the greatest land power on the globe". Here lay the seeds of US "containment" policy. When the architect of American postwar anti-Soviet strategy, diplomat George Kennan, argued that "our problem is to prevent the gathering together of the military-industrial potential of the entire Eurasian landmass under a single power threatening the interests of the insular and mainland portions of the globe", it was pure Mackinder.

Since then, Mackinder's thinking has found a secure place in the Pentagon. Under the patronage of Henry Kissinger and Zbiginiew Brzezinski, an appreciation of geographical dominance was obvious. The legacy lightened under the multilateralism and detente of Bill Clinton, but returned with red-blooded vigour under the neoconservative Project for the New American Century. In the post-cold war era, the neocons believed the US should seek total hegemony over the World Island without the interference of do-gooding idealists at the United Nations – which provides some insight into the war in Iraq.

Even now, much of that group-think remains evident in Washington. The latest issue of Foreign Policy magazine asserts that "the US projection of power into Afghanistan and Iraq, and today's tensions with Russia over the political fate of central Asia and the Caucasus, have only bolstered Mackinder's thesis". In a new essay for opendemocracy.net, Prince Hassan of Jordan has similarly spoken of how "the struggle for control of the 'energy ellipse' from Eurasia to the Straits of Hormuz" has revealed the resonance of Mackinder's thinking "for the political power plays of today".

For it is in the resource-rich former Soviet republics of Kyrgyzstan, Uzbekistan, Turkmenistan and Belarus that the battle for the heartland is being played out most obviously. Moscow is working hard to retain its zone of privileged interest, while America is using a string of military bases, oil contracts and development aid to boost its geopolitical influence.

So the decision to cancel the antiballistic missile shield and risk ceding the eastern heartland to the Russians is, from the Mackinder perspective, an act of monstrous strategic incompetence. Then again, it might just be another example of Obama's ability to think beyond the belligerent philosophy of the Pentagon and the prescriptions of a Victorian imperialist which so rarely offered a fair peace.

mercoledì 23 settembre 2009

Basta dollaro, negli scambi internazionali Teheran userà l’euro

da AsiaNews

Annunciata da anni, la decisione è contenuta in un decreto del presidente Ahmadinejad e riguarda in particolare gli scambi petroliferi. Con oltre quattro milioni di barili al giorno l’Iran è il quarto produttore mondiale di “oro nero”.

L’Iran, quarto produttore mondiale di petrolio, ha deciso di sostituire negli scambi internazionale il dollaro con l’euro. Lo stabilisce un decreto del presidente Mahmoud Ahmadiejad.
La decisione, precisano le agenzie iraniane, è stata presa sentiti gli amministratori delle riserve estere del Paese. La decisione riguarda in particolare proprio le transazioni aventi ad oggetto il petrolio – l’Iran ne produce oltre quattro milioni di barili al giorno - che rappresentano l’80% del totale delle entrate di valuta estera e circa il 50% delle entrate del bilancio generale dello Stato.
In realtà, la volontà di utilizzare l’euro e non il dollaro per le transazioni internazionali è stata più volte proclamata dalla Repubblica islamica negli anni scorsi. Teheran aveva anche proposto agli altri Paesi dell’Opec di abbandonare “l’affondante” dollaro a favore del “più credibile” euro. Ora il decreto presidenziale sembra aver deciso il passaggio.
In seguito al cambiamento, è stato annunciato che il tasso di interesse previsto dalla Riserva degli scambi esteri sarà ridotto dal 12 al 5%:

lunedì 21 settembre 2009

Esselunga

“Il sogno del vero uomo è la cassiera del supermercato con la ricrescita. Ma bisogna sapersi accontentare e farsi piacere ciò che passa il convento: la laureata in filosofia, la studentessa di scienze della comunicazione, la stagista che fa conservazione dei beni culturali… Mentre il cervello della cassiera è passato attraverso un solo schiacciapatate, la televisione, il loro subisce una macinatura ulteriore: lo studio coatto. Sono psichicamente così snervate che a volte sfogliano addirittura Repubblica. Ma sono le ragazze della nostra vita e un’altra vita non esiste”.

(Camillo Langone, da Da Il Foglio del 26 novembre 2005)

il mondo di Videocracy non è arrivato dal nulla

Siamo gli ultimi. Quasi quelli che vengono dopo gli ultimi. Subito dopo di noi ha inizio un'altra epoca, un altro mondo, il mondo di chi non crede più a niente, di chi se ne vanta e se ne inorgoglisce. Subito dopo di noi ha inizio il mondo che abbiamo definito, che non cesseremo mai di definire, il mondo moderno. Il mondo degli intelligenti, dei progressisti, di quelli che la sanno più lunga, di quelli ai quali non la si dà a bere. Il mondo di chi non ha più niente da imparare. Il mondo di chi fa il furbo. Il mondo di chi non si lascia abbindolare, di chi non è imbecille. Come noi. Cioè, il mondo di chi non crede più a niente, neppure all'ateismo, di chi non si prodiga per nulla e non si sacrifica per nulla.


CHARLES PÉGUY, 1972.
(da La nostra gioventù - Il denaro)

Contro la "spiritualità new-age", dal 33 d.C.




Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina,
ma, per il prurito di udire qualcosa di nuovo,
gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie,
rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.
2 Timoteo 4,4-5

giovedì 17 settembre 2009

I Talebani hanno il diritto di poter sbagliare da soli


di Massimo Fini - 29/07/2009


Non è certo il momento di ritirare le truppe dall’Afghanistan perchè un nostro soldato è stato ucciso. Ma è da tempo che avremmo dovuto chiederci seriamente che cosa ci stiamo a fare in quel Paese lontano cinquemila chilometri da noi, ad ammazzar gente che non ci ha fatto nulla di male e, sia pur in proporzione di uno a cento data la sperequazione delle forze, a farci ammazzare.
Le motivazioni ufficiali, ribadite anche di recente dal ministro Frattini, sono: 1) combattere il terrorismo internazionale; 2) garantire la sicurezza all’interno di quel Paese; 3) aiutarne lo sviluppo.
1) Gli afgani non sono terroristi, tantomeno internazionali. Non c’erano afgani nei commandos che abbatterono le Torri Gemelle, non un solo afgano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di Al Qaeda scoperte dopo l’11 settembre. C’erano arabai sauditi, yemeniti, giordani, egiziani, algerini, tunisini, ma non afgani. Nei dieci anni di durissimo confilitto contro l’invasore sovietico, gli afgani non si resero responsabili di un solo atto di terrorismo e anche adesso che la guerriglia si trova di fronte un esercito praticamente invisibile, che fa uso a tappeto di bombardieri, ed è quindi costretta a cercare forme alternative di lotta, gli atti di tipo terroristico sono relativamente pochi e comunque sempre mirati ad obiettivi militari o politici. Del resto non si può gabellare una lotta di resistenza che dura da otto anni, con l’evidente appoggio della popolazione senza il quale non potrebbe esistere, per terrorismo. Lo stesso Karzai, che è un fantoccio degli americani, è stato costretto ad ammettere: "Bisogna trattare con i Talebani perchè sono parte di questo Paese".
Ai Talebani, come gli altri afgani che li appoggiano, interessa solo il proprio Paese, non hanno alcuna intenzione di fare la "guerra santa" all’Occidente. Dice: ma l’Afghanistan è tuttora la culla del terrorismo quaedista, cioè arabo. Ma basta un semplice ragionamento per escluderlo. Che interesse avrebbero i terroristi internazionali a far base in un Paese dove stazionano 80mila soldati Nato, quando potrebbero benissimo stare nello Yemen, che li protegge, o mimetizzarsi fra le popolazioni in Arabia Saudita, in Giordania, in Egitto per prepararvi in tutta tranquillità i loro eventuali attentati?
2) È del tutto evidente che la situazione di insicurezza e di instabilità dell’Afghanistan è frutto proprio della presenza di quelle truppe straniere che dovrebbero portarvi l’ordine e invece provocano il disordine perchè quel popolo orgoglioso, che ha cacciato inglesi e sovietici, non tollera occupazioni, comunque motivate.
3) È tutto da dimostrare che gli afgani vogliano il nostro tipo di sviluppo, secondo le nostre leggi, le nostre istituzioni, i nostri usi, i nostri costumi, violentandone i loro e quell’equilibrio agro-pastorale su cui hanno vissuto per millenni.
Adesso le "Vispe Terese" dell’Occidente scoprono che gli americani usando un loro alleato, l’uzbeko Dostum, "signore della guerra", uno dei peggiori pendagli da forca della regione, hanno ucciso duemila prigionieri talebani e poi li hanno gettati nelle fosse comuni. Ha scritto Gino Rampoldi su La Repubblica: "Se siamo onesti dobbiamo ammettere che queste cose le abbiamo sempre sapute".
I Dostum, gli Heckmatyer, gli Ismail Khan, "signori della guerra" che taglieggiavano, rubavano, ammazzavano, stupravano a loro piacimento e arbibrio, i Talebani li avevano cacciati dall’Afghanistan e avevano ristabilito l’ordine e la legge nel Paese, sia pur un duro ordine e una dura legge, la Shariah, peraltro consonante con i sentimenti della maggioranza di quelle popolazioni. Inoltre nel 2000, l’anno prima dell’aggressione americana, il Mullah Omar aveva stroncato il traffico dell’oppio (oggi l’Afghanistan ne produce il 93% del totale mondiale).
E allora? Il generale russo che comandò le truppe sovietiche in Afghanistan ha detto: "Le truppe Nato si devono ritirare. Bisogna lasciare che gli afgani sbaglino da soli". Ed è paradossale ed avvilente che le parole più ragionevoli sull’Afghanistan le abbia dette un generale ex comunista.

mercoledì 16 settembre 2009

quando ronde, telecamere e ordinanze varie le facevano gli altri




sempre detto io, che la lega è in fondo un partito di sinistra vecchia maniera.

martedì 15 settembre 2009

one like putin...

attendiamo video simili anche sui politici nostrani..."one like mastella" anyone?

mercoledì 2 settembre 2009

Una linea Avveniristica..

da liberoarbitrio blog


Non è che alla CEI e alla redazione di Avvenire si sono svegliati l’altra mattina stropicciandosi gli occhi e apprendendo con sorpresa che Berlusconi è un trombeur de femmes. Semplicemente, la situazione politica attuale ci mette di fronte ad un triste dilemma: è meglio un politico puttaniere che sulla famiglia legifera in modo quantomeno accettabile, o un politico fedele e morigerato che legifera in modo deleterio per la società? Certo, l’ideale sarebbe un leader politico che riunisse l’una e l’altra qualità. Ma in questo momento non ce l’abbiamo, ed anzi è lecito sospettare che di politici santi non ne vedremo mai. In altri tempi si è pensato di applicare la ricetta di Platone (cioè, se i governanti non riescono a essere buoni, allora siano i buoni a farsi governanti) e affidare alla Chiesa il potere temporale, ma non ha funzionato e non poteva funzionare: come dicono due assiomi Bene Gesserit, il potere corrompe e il potere assoluto corrompe in modo assoluto ed inoltre il potere non soltanto corrompe, ma attira i corruttibili. A fare politici i chierici non si migliora la politica, si peggiorano i chierici.

E allora che si fa? Alla CEI e ad Avvenire credono che sugli argomenti famiglia e bioetica questo governo sia preferibile al precedente (su altri argomenti è da discutere), e si regolano di conseguenza. Un conto è il Berlusconi uomo peccatore, a cui vanno tirate le orecchie come a chiunque altro e che non ha diritto a sconti in confessionale, un altro è il Berlusconi politico a cui ci si adatta se al momento non c’è di meglio.

Mi sembra un modo di ragionare laico. Forse è per questo che i giornali laicisti non lo capiscono.